Ho visto Jerry Seinfeld

Trattato come uno scarto da chi maneggiava palinsesti, dopo di lui nulla è stato più come prima: buio in sala, sul palco di Tucson la leggenda.

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Avrei dovuto essere a Phoenix, Arizona, a vedere una partita di Nba tra Suns e Trailblazers. Avevo già i biglietti, ma l’ho venduti a metà prezzo pur di ricavarne qualcosa per pagarne poi il doppio per un altro evento a un’ora e mezza di auto in un posto dove non progettavo di andare: a Tucson, che si dice ‘Tiusn’, perché l’inglese – specialmente quello degli americani – non lo capirò mai, come non capirò gli americani. A darmi una mano a capirli, ci ha pensato negli anni una specie di divinità locale che però in Europa è un culto minore, sconosciuto ai più, un nome quasi da setta segreta, in cui gli adepti si riconoscono, si sentono degli eletti. Il suo nome è Jerry Seinfeld.

Parlare di lui è come nominare nel Vecchio Continente leggende del football americano o del baseball: Jerry Rice, Peyton Manning, Barry Bonds o Alex Rodriguez, tutta gente che al massimo – appassionati del genere a parte – si becca un’alzata di spalle. Come andare in Montana o in Iowa e mettersi a parlare di Roberto Baggio: qualcuno capirà, mica tutti. Parecchi risponderanno con un’identica alzata di spalle. Seinfeld però fa uno sport molto praticato anche alle nostre latitudini: far ridere. Ha avuto solo la sfortuna di essere tradotto male e doppiato peggio, quando, alla fine degli anni Ottanta, l’omonima sit-com che lo vedeva protagonista è apparsa sulle tv in lingua italiana.


Il cast della serie: Michael Richards, Jason Alexander, Julia Louis-Dreyfus, Jerry Seinfeld


© R.C.

Saguaro Park

Trattato come uno scarto da chi maneggiava palinsesti, Seinfeld è invece Orson Welles, Ennio Morricone, i Beatles, Pelé o Maradona: insomma, dopo di lui nulla è stato più come prima. Chi ha visto e amato ‘Friends’ , ‘How I Met Your Mother’ , ‘The Big Bang Theory’ o qualsiasi altra serie comedy vi venga in mente, ecco, sappia che senza Seinfeld non sarebbero esistite.

Per questo sono in una città circondata da saguaros, che non sono felini, ma i cactus più cactus di tutti i cactus, quelli verdi con quelle braccia antropomorfe che visualizzi quando senti la parola cactus, resi immortali da Charles Schulz, il papà dei Peanuts, che li metteva da sfondo a Spike, il fratello di Snoopy di stanza a Needles, nemmeno troppo lontano da Tucson.

Il Saguaro Park è una di quelle meraviglie che ti riempiono gli occhi in un pezzo d’America in cui le città deludono più o meno sempre. Tucson invece ha un suo perché, un po’ messicana nei colori, nell’atmosfera rilassata. Insomma, una città che non si prende troppo sul serio, perfetta per uno spettacolo in cui il comico è venuto a rodare le battute prima di andare nelle città che contano: New York, Los Angeles, Boston.


© R.C.
Puffy Shirt

Rimpatriata

Lo show dal vivo di Seinfeld è al teatro Linda Ronstadt, la cantante country-folk figlia di Tucson, e tuttavia ancora viva. Arrivo molto presto, un po’ perché il biglietto l’ho preso su un sito che non mi sembava affidabile (e volevo essere sicuro di entrare), un po’ perché volevo vedere che gente andava a vedere il vecchio Jerry: ci vanno i bianchi (ho contato in tutta la sala non più di 8 neri, la metà erano lì per lavorare); i maschi hanno quasi tutti il cappello da baseball, chi non ce l’ha, indossa un cappello da cowboy quasi come fosse obbligatorio mettere l’uno o l’altro, una specie di dress code; sono tantissime le donne, che esibiscono anche vecchie magliette sgualcite della serie tv che ha cambiato l’America (scherzando su tutto, dalla masturbazione all’omosessualità, dalla religione alla morte), un po’ come ai concerti.

In attesa dello show la gente si ferma nella hall del teatro, che ricorda quella degli alberghi impomatati degli anni Ottanta. Sorridono tutti, non ho mai visto un pubblico più placido e felice in vita mia: sembra una di quelle rimpatriate dei vecchi alunni dei college nei film, dove tutti si divertono, ma nessuno esagera. C’è anche un bar interno che ha nove birre diverse, ma tutti ordinano rigorosamente cocktail. L’atmosfera si scalda quando arriva una coppia con addosso la “Puffy Shirt” , una camicia a sbuffi protagonista di una delle puntate culto dello show culto. I due posano con i fan, riescono anche a farsi offrire da bere, raccontano del posto in cui se le sono fatte fare su misura. Io mi dirigo verso i corridoi che portano alla platea, dove ci sono appesi alla bell’e meglio disegni di bambini delle scuole elementari, che fanno capire come a Tucson non si riesce a darsi un tono fino in fondo: ed è meglio così.


© R.C.
Un attimo prima dello show

Buio in sala

Gli altoparlanti cominciano a suonare pezzi di Frank Sinatra, perché Seinfeld, con i suoi 68 anni (nonostante l’aria giovanile) è diventato un classico, come “Blue Moon” e “Pennies from Heaven”. Quando si abbassano le luci parte “New York, New York” , che è la città di Seinfeld, il luogo dov’era ambientata la sua serie tv, e anche un posto lontano anni luce da Tucson, quasi su un altro pianeta.

Jerry entra con gli applausi già in tasca, credito di una carriera intera, e parte un po’ lento, mostrando quasi tutti i suoi anni, scherza sulla moda dello stand up paddle e degli ski jet, fa qualche battuta già sentita sul golf e la famiglia, azzarda sui cimiteri e ricorda a tutti che i figli “sono qui per rimpiazzarci”. Poi comincia a parlare del fatto che non ci sono ristoranti cinesi in Cina e come prove tira fuori che non c’è scritto “ristorante cinese” da nessuna parte e, a fine pasto, non ti danno i “biscotti portafortuna”.

A un certo punto un tizio col cappello da cowboy gli offre un sorso di whisky, Seinfeld rifiuta dicendo che non è il caso di accettare bevande da sconosciuti. Su uno sgabello ha dei foglietti con le battute, ogni tanto va a guardarli, sceglie cosa dire: non è proprio uno show, ma una prova col pubblico, che si scatena quando lui chiede di fare domande: l’euforia è tale che sembra abbiano gettato fiumi di caramelle a una festa di bambini. Lui risponde sul suo programma preferito, la réclame dello stucco Flexil (chi di noi, d’altronde, non è rimasto affascinato da una televendita? Per me i coltelli dello Chef Tony) e su altre cose più o meno sensate. A chi gli chiede se ci sarà prima o poi una reunion del cast di Seinfeld al completo, ne esce elegante come il suo completo: “Sì, ma solo quando tutte le nostre carriere saranno finite nel cesso. Siamo a buon punto, ma non ci siamo ancora arrivati”.

(Sotto)titoli di coda

Le luci si spengono, parte “The way you look tonight” e io ripenso alle battute, di cui avrò capito sì e no l’ottanta per cento, senza l’aiuto dei sottotitoli. Non importava poi tanto, importava esserci, creare una connessione, rendere omaggio a una delle persone che più mi ha fatto ridere nella mia vita. Era un po’ fiacco? Sì. Certe battute erano prevedibili? Certo. Ma è stato divertente. Un po’ come andare a vedere Totti a 40 anni, Foreman a 50, i Rolling Stones a 70. Non è la stessa cosa di prima, non può esserlo. Ma c’eri. C’ero, e posso dire, innanzitutto a me stesso, “ho visto Jerry Seinfeld”.

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