Flavio Stroppini: scrivere nell’Artico
Tra silenzi, solitudine e un bianco che avvolge tutto, il racconto di un’esperienza fuori dall’ordinario. E per questo capace di far ritrovare sé stessi
Di Flavio Stroppini
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Tra febbraio e marzo ho camminato centinaia di chilometri poco sopra il 68esimo parallelo Nord, nella Groenlandia occidentale. Ero lassù per una residenza artistica, a bordo di una piccola nave di ventisette metri di lunghezza, il Manguier, bloccata dal ghiaccio in un fiordo. L’essere per trenta giorni lontano e disconnesso dal mondo, vivere una quotidianità rigida – a ore di marcia dal primo villaggio – in un altrove solitario e ricoperto dal ghiaccio è stato un’esperienza fuori dal comune. Ho imparato a muovermi in un mondo ghiacciato, spazzato dal vento, freddo e, nonostante l’apparente immobilità, ricolmo di vita. Con il passare dei giorni ho costruito una mia geografia e una nuova quotidianità. Le mie esplorazioni erano nell’entroterra, sulla banchisa, tra gli iceberg, nella luce solare e nella notte, talvolta in compagnia di Phil, il capitano del Manguier, e spesso in solitaria. Mentre camminavo registravo suoni, la sera scrivevo, raccontando quel che mi era capitato. Ne è uscito un podcast particolare “Diary from elsewhere” presentato al Festival Territori di Bellinzona. Tutte le parole che ho scritto stanno diventando un lungo racconto: eccone sei estratti…
© Flavio Stroppini
Tutto è bianco. E il bianco ha sfumature che non gli riconosco. Non riesco a fermarmi. Cammino senza una meta precisa. Forse quel rilievo lassù, da dove osservare questo selvaggio paradiso. O inferno. Tutto è fermo e in movimento allo stesso tempo. I passi producono suoni sempre diversi, a dipendenza del tipo di neve che calpesto. Con me ho il tuk, una specie di arpione dal nome onomatopeico. Mi serve per testare la solidità della banchisa, se ho dubbi. Cerco di eccedere nella prudenza, un bagno fuori programma non è consigliato. Con forza prendo di mira un punto che non mi sembra particolarmente solido. Uno, due e tre colpi. Se non cede posso passare. I punti li scelgo in base a un bianco particolare, che solitamente tende all’azzurro, o perché c’è una sottile fessura che non mi convince. È così che avanzo. Con gli occhi in basso a studiare il ghiaccio e in alto a perdersi nell’infinità del territorio. Colonna sonora il vento, i suoni diversi dei miei passi, il ritmato percuotere del tuk, il mio respiro che sembra usare il corpo come cassa di risonanza e rimbomba ovunque. Se mi vedessi dall’esterno direi che sono un alieno su di un pianeta lontano anni luce. Uno strano essere con il volto coperto da un passamontagna e da una maschera che arranca senza meta tra il ghiaccio, a -25 gradi.
© Flavio Stroppini
Il Manguier è diventato la mia casa, il mio mondo arrugginito, arancione ma ricoperto di teli bianchi per preservarlo dalle violenze del gelo. Se dovessi trovare un aggettivo per descriverlo direi: ruvido. Eppure risplende di calore e può colpirti a fondo se lo tocchi senza guanti, provocandoti fastidiose bruciature da freddo, o se cammini dimenticando la pista di pattinaggio che diventa quando il vento lo colpisce forte da tribordo. La sera, mentre torno dalle mie esplorazioni, a volte sento il gruppo elettrogeno che lo aiuta a rimanere vivo. A volte invece è spento, come la mattina per la colazione a base di porridge, formaggio, burro e marmellata. Il primo che si alza deve accendere le stufe, litigando con la legna gelata dalla notte. Poi accende il gas per il caffè e il tè. In testa la lampada frontale, come la notte per raggiungere la cabina non riscaldata di prua dove dormo rintanato nel sacco a pelo, e sul tavolone delle candele, come fanno i groenlandesi. Il mattino non c’è bisogno di luce artificiale, grazie alle candele si vive più vicino agli spiriti, a chi non è più fisicamente tra noi. Il giorno inizia in una terra di mezzo tra questo e l’altro mondo.
© Flavio Stroppini
L’intero cielo a sud-est risplendeva di vertiginosi e abbaglianti torrioni in creazione e disfacimento. Una miriade di pilastri luminescenti si torceva e rincorreva in una danza ancestrale. Una gigantesca aurora boreale. Bianca. Un biancore ricolmo di gelide sfumature. Era come se il cielo succhiasse il ghiaccio della terra. Mi era girata la testa e mi ero domandato se fossi vivo o fossi morto per essere parte di uno spettacolo del genere. Mi veniva da ridere e da piangere allo stesso momento. Credo di avere urlato, con tutta la mia forza. Ma non per paura o gioia. Credo di averlo fatto semplicemente per provare a me stesso di essere vivo. Lì ho capito cosa si intende per vertigo artica. È il momento in cui la solitudine, mescolata alla rigidità e alla bellezza selvaggia provoca negli esseri umani il bisogno di fare qualcosa di folle. Ho sentito di gente che si è messa a correre nuda sulla banchisa fino a scomparire. Altri che hanno iniziato a ridere e non hanno smesso per settimane, o proprio non hanno smesso. Quel che penso è che vertigo artica sia lo scatto che allontana la mente da questo mondo e la porti in uno di quelli accanto. Qua in Groenlandia questi mondi si incontrano in continuazione ed è probabilmente impossibile tracciare linee di confine nette.
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Ma tutto scompare. La musica, anche il mondo. Sono ubriaco di bianco. Tutto è bianco. Fatico a capire dove sia il sotto e dove sia il sopra. Qua lo chiamano whiteout, l’allucinazione bianca. Aspetto che passi, che torni la percezione dello spazio. Non devo pensare, non devo usare la testa. Devo aspettare e concentrarmi sulle mie ginocchia. Sono loro che devono diventare il centro del mio equilibrio. Se attendi passa. Passa e prendo la borraccia. Bevo un po’ di tè zuccherato. Torno a camminare, non sono nemmeno a un terzo del percorso per la fonte. Mentre il corpo si rilassa e si riscalda grazie al movimento, penso ai fenomeni che questo luogo mi sbatte sul volto costringendomi ad affrontarli. Il bianco è accecante, i raggi del sole riverberano ovunque. Non ci sono ombre. Il buio che è un sipario nero quando non si vedono le stelle. Si perde l’equilibrio. Qua tutto è in quantità estreme, non ci sono mezze misure. Questi passaggi estremi portano alle allucinazioni. Qua è un fenomeno tipico. E ognuno racconta le sue. La più comune è avvertire la presenza di qualcuno e poi vederlo, che si avvicina o che si allontana. O, ancora peggio, che ti insegue. Il cuore accelera e si viene invasi dalla paura. È successo anche a me.
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L’altro giorno ho agganciato due Kanajooq, pesci dall’aspetto primordiale, grandi una trentina di centimetri, che sembrano provenire da un universo differente. Per pescare mi metto al centro della baia. Con il tuk segno un cerchio per terra. Incido i margini per qualche centimetro. Poi dal centro raschio, sempre con il tuk, il ghiaccio verso i margini del cerchio. Pulisco e ricomincio. Più e più volte. Margini e poi dal centro. La banchisa ha uno spessore di circa quindici centimetri in quel punto. In dieci minuti di lavoro riesco a raggiungere l’acqua. Con gli ultimi colpi ben assestati tolgo il cappello di ghiaccio: ecco il mio buco. Le braccia fanno male e ho il fiato grosso. Il corpo è caldo per il movimento, mi scalderà per un po’. Prima del freddo pungente causato dalla parziale immobilità della pesca. Due grezzi ami di ferro e un peso legati a una cordicella avvolta a un legno. Si immergono gli ami nell’acqua e si svolge la cordicella fino a quando tocca il fondo. Una quindicina di metri nella mia “zona di pesca”. Toccato il fondo, con movimento ritmato, senza troppa fretta, si solleva, con il braccio, la cordicella e la si lascia cascare sul fondo. Una, due, dieci, cento volte. Uno, due, dieci minuti. Fino a quando qualcosa non abbocca. Spesso si tratta di falsi allarmi, ma si pesca anche. Non c’è nemmeno bisogno di uccidere il pesce come dalle nostre parti, lo si lascia lì sulla banchisa per mezzo minuto ed è già congelato. Nonostante l’aspetto spaventoso i Kanajooq sono ottimi nella zuppa.
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Lontano un suono. È l’ululare di centinaia di cani da slitta. Abbaiano e ululano all’aurora boreale. Quel concerto, che potrebbe spaventare, è per me di conforto. Se sento i cani significa che il villaggio è vicino. Mi rialzo. Ho la barba ghiacciata, le dita di mani e piedi che bruciano, la schiena che urla e le gambe rigide. Mi aggrappo a quel dolore per continuare. Rimettendomi in movimento dovrebbe passare. Non seguo più alcun inuksuit, Sirio o qualsiasi altro mio riferimento. A guidarmi è l’ululare dei cani. Sopra di me l’aurora inizia a pulsare. Perde e riprende intensità. Cambia forma e dimensioni. Cambia posizione. Ma il demone è svanito, non mi ha catturato. Sono sopravvissuto. Passo dopo passo torno in forze. Salgo e scendo montagne che riconosco. Uno, due e tre colpi su zone di faglia più volte attraversate. I cani groenlandesi continuano a ululare e abbaiare fino a quando vedo, da un inuksuit più alto degli altri le loro cucce e le luci del villaggio. Giro a destra e proseguo allontanandomi da quel suono che mi ha salvato. C’è ancora un’ora per arrivare al Manguier, alla baia dov’è arenato nel ghiaccio, alle luci del quadro. Immagino che quando arriverò Phil mi avrà tenuto qualcosa in caldo sulla stufa a legna.
© Flavio Stroppini
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