Disavventure Latine. Messico: Chiapas, un’altra dimensione

San Cristobal è la porta aperta di un mondo chiuso, fatto di mille contraddizioni. Ma le esperienze ‘illuminanti’ (anche) qui non mancheranno…

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Avevo comprato il biglietto aereo per il Messico nel febbraio di due anni fa. La partenza era fissata il 17 marzo 2020 da Genova. Sono atterrato all’alba del 6 aprile di quest’anno, una pandemia e quindici ore dopo essere decollato da Zurigo. Nel frattempo, insieme all’aeroporto di partenza, sono cambiati sia il luogo in cui vivo che il mondo. E, a suo modo, pure il Messico. Non so come fosse prima, ma ho un mese di tempo per illudermi di capire com’è ora. (Terza puntata)

“Non prendere la Coca-Cola, prendi il pulque” leggo su un muro di San Cristobal de Las Casas, ombelico di quel piccolo, grande mondo impossibile da capire chiamato Chiapas, dove – rispetto al resto del Messico – sono diverse le facce, le abitudini, il cibo, la lingua. San Cristobal è la porta aperta di un mondo chiuso, fatto di mille contraddizioni. La prima: decido di andare a bere il pulque, come consigliato dal manifesto appeso al muro, svolto l’angolo e mi ritrovo davanti una camionetta della Coca-Cola che fa le consegne.
Il pulque, che duemila anni fa aveva una ricetta segreta come la Coca-Cola (e veniva bevuto solo dalle classi dominanti), è una bevanda tipica locale – leggermente alcolica – fatta con la linfa dell’agave fermentata. Una sorta di proto-tequila e proto-mezcal inventato ai tempi in cui le popolazioni mesoamericane non avevano le capacità e gli strumenti per distillare alcolici. Ora è tornato di moda ed è un modo – tra i tanti – per riaffermare la propria identità. Quello normale ha un colore tra il bianco e l’acqua sporca, il “pulque curado” viene mischiato a vari tipi di frutta. Non è male, ma è complicato berlo, e alcuni proprio non riescono a deglutirlo visto che ha una consistenza viscosa e – a dirla tutta – sembra di bere della bava.


© R. Scarcella
La difesa di un popolo passa anche dalla difesa delle tradizioni: per esempio la gastronomia ʻdi stradaʼ e le bevande dalla storia millenaria (come il pulque), che cercano di contrastare i grandi colossi mondiali.


© R. Scarcella

Cuori perduti (o ribelli?)

I muri di San Cristobal parlano, dicono ai locali “descolonizate!”, impartiscono microlezioni di storia zapatista e ricordano a turisti e viaggiatori che “l’amore non è per i tiepidi”, che “nessuno è illegale”, che “il Messico è un cimitero di migranti”. Un piccolo murale che rispunta continuamente dice: “Si cercano cuori ribelli”. E non sai se sono proprio ribelli, o più probabilmente perduti, ma arrivano da ogni parte del mondo, da Torino e dalla Nuova Zelanda, da Bilbao e da Seattle. E dal resto del Messico, che sembra niente eppure è un po’ come atterrare da un altro mondo. Quando parli con loro, quelli che hanno scelto di vivere qui – per un po’ o per sempre, o per un po’ che poi diventa per sempre – ti dicono che c’è qualcosa di magnetico che li ha attratti e che non li lascia più andare via: lo dice la commessa italiana di un negozio di arte popolare, lo ripetono il neozelandese che prepara cocktail e lo spagnolo che vende caffè (pare il più buono del mondo, ma dopo averne bevuti anche troppi mi restano dei dubbi). Una messicana stufa del caos di Città del Messico dice che San Cristobal è la porta di un’altra dimensione. E lì per lì non capisco, mi suona come un’esagerazione di chi deve giustificare a sé stesso la vita in un posto di hippy fuori tempo massimo, in cui essere strani è la normalità, il necessario bilanciamento tra le orde di turisti con la macchina fotografica al collo a caccia di souvenir e i locali che si vestono, parlano e perfino camminano in un modo tutto loro, sempre un po’ affaticato, come se portassero addosso il peso di qualcosa che noi di passaggio non vediamo.


© R. Scarcella


© R. Scarcella

Polvere e colori

Tutt’intorno alle sette-otto strade a misura di turista si apre un mondo che ti attrae e ti respinge, dove si gioca a pallavolo in piazza sulle note di Manu Chao e ci si accalca in mercati in cui un occidentale fatica a trovare qualcosa di suo gusto, con l’aggravante di avere tutti gli occhi addosso. Da lì m’infilo in un “colectivo”, pulmini che sono un po’ taxi e un po’ autobus, e mi dirigo a San Juan Chamula, una cittadina a pochi chilometri famosa per una chiesa in cui vengono compiuti riti pagani sotto lo sguardo di trenta statue cristiane con uno specchio al collo (di modo che, chi prega il suo santo può guardarsi in faccia mentre elenca i propri peccati). Non si parla spagnolo a San Juan Chamula, e se lo fanno te lo nascondono bene. La porta sempre aperta di San Cristobal qui si restringe: nessuno è davvero scortese, ma nessuno sembra volerti davvero lì. Il “colectivo” mi lascia in cima a una ripida salita, e mentre scendo a piedi mi si apre un mondo polveroso e dai colori accesi che non sembra più essere il nostro: le donne hanno abiti di lana nera, gli uomini dei giacconi di lana bianca, i lineamenti sono esageratamente marcati, come di umani che hanno preso una strada tutta loro, come se qualcuno li avesse truccati calcando la mano. Sembra di entrare in una di quelle scene di Guerre Stellari dove i protagonisti atterrano in un villaggio di un pianeta sconosciuto. Eppure non è ancora niente. Quei pochi pesos che ti permettono di entrare nella chiesa di San Giovanni Battista – tutta bianca con un portale di legno dipinto tutt’intorno di un verde accecante – sono il biglietto per un’altra dimensione.


© R. Scarcella

Nel caos e ritorno

Mi avevano raccontato di questo posto con centinaia di candele accese, aghi di pino in terra, un po’ di fumo ad annebbiarti la vista, un pugno di donne in estasi e qualche santone che si aggira con uova e polli da sacrificare. Ovunque c’è scritto che non si possono fare foto, pena una multa salata, ma ho come l’impressione che non arriveresti a pagare la multa: sei guardato a vista e alcuni sembrano non aspettare altro che tu scatti una foto per farti fare la fine del pollo.
Sarà che siamo nella settimana che precede Pasqua, ma quel che vedo è una versione moltiplicata di quel che mi avevano raccontato: le candele sono migliaia, il fumo è ben più di una nebbia, le piante non sono solo sotto i miei piedi ma anche su lunghe tavolate, dappertutto, e non ci sono un po’ di persone in estasi, c’è il caos. Riesco a malapena a muovermi e, sgomitando, arrivare sotto all’altare, dove un uomo mi ricaccia indietro. Tutt’intorno altri uomini tengono tra le mani annaffiatoi di plastica enormi pieni d’acqua, altri prendono dei fiori e li buttano dentro, la gente intorno aspetta il proprio turno: desiderano bere quell’acqua, vogliono ingoiare quei fiori. Bambini e anziani si passano grossi bicchieri di vetro, incuranti del Covid e delle norme igieniche di base. Negli angoli ci sono donne che sembrano vedere cose che io non vedo, che sembrano toccare entità che io non percepisco. Quando penso sia arrivato il momento di andarmene, non ci riesco. Non sono mai stato così tanto in una chiesa in vita mia, per di più una chiesa in cui mi sento un intruso, un alieno. Quella forza magnetica che mi hanno raccontato gli autoesiliati di San Cristobal è qui, mi si è appiccicata addosso. Quando alla fine esco e dalla semioscurità torno sotto il sole messicano è come essersi risvegliato da un sogno, come aver oltrepassato una soglia spazio-temporale.
Quando qualcuno mi chiede perché viaggio di solito cerco di raccontare di quella volta che – per una serie di coincidenze – mi sono ritrovato da solo, al mattino presto, dal lato brasiliano delle cascate di Iguazú, sovrastato dalla natura e attorniato da arcobaleni, felice e grato di essere al mondo e assistere a quello spettacolo tutto per me, sebbene per una manciata di minuti, prima che arrivassero altri esseri umani a guastare il momento. Ora aggiungerò di quella volta in una chiesa sperduta di un villaggio sperduto della provincia più sperduta del Messico in cui lo spettacolo erano gli esseri umani e io l’incantato disturbatore.


© R. Scarcella


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