Il mondo (segreto) dei segnatori
Parole magiche, gesti tramandati oralmente, in famiglia, durante la notte di Natale, pratiche antiche di guarigione. Un fenomeno ancora presente in Ticino
Di Sara Rossi Guidicelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
“È la vigilia di Natale. La mamma mi ha detto che questa sera, durante la messa, allo scoccare della mezzanotte mi passerà il suo dono. La mamma guarisce le persone che si bruciano. Recita parole e fa dei gesti, e questa notte mi passerà il segreto che mi permetterà di diventare come lei, un segnatore. La chiesa è gremita. Non riesco a concentrarmi, sono teso ed emozionato. La mamma mi ha spiegato che mi ripeterà la formula tre volte nell’orecchio e che devo tenerla bene a mente; se non ricorderò le parole dovremo aspettare l’anno prossimo, perché il dono si può tramandare solo nella notte di Natale, dentro una chiesa, allo scoccare della mezzanotte…”. Questa è una delle testimonianze che ho raccolto negli ultimi mesi: Roberto Cefis, sindacalista biaschese, municipale e ciclista, padre di due figli, segnatore. Uno di quelli che non sono nell’elenco del telefono, ma che chiamiamo quando abbiamo bisogno di cicatrizzare una ferita, dovuta a fuoco o acido. Una bruciatura, insomma.
Roberto Cefis
Cosa sono i segnatori
Ne ho sentito parlare per la prima volta, una decina di anni fa in Leventina. Due persone ne parlavano e io non capivo. Dicevano: “Vai a farti segnare quando ti scotti; ci sono signore, soprattutto anziane, che conoscono un rituale che fa guarire più in fretta. Bloccano la piaga. Anche i dottori qui lo sanno e in caso di ustioni gravi fanno entrare le segnatrici, anche se non si capisce perché funziona. Però è evidente che il miglioramento è molto più efficace che se si usano le pomate e gli altri sistemi ‘razionali’”. Avevo sentito anche una maestra d’asilo, in Leventina, che applica delle crocette con la mano vicino alle ferite dei suoi bambini, quando si sbucciano. Non li tocca, nemmeno li sfiora. E mormora delle parole incomprensibili. I bambini sono rassicurati e le ferite – mi dicevano certi genitori – si rimarginano in modo molto più rapido del consueto. Mi sono incuriosita, non della ‘magia’, ma di chi la pratica. Ho voluto incontrare alcune di queste segnatrici e chiedere loro di raccontarmi quello che si può. Il primo a parlarmi è stato un uomo, anche lui della Valle Riviera, che ha preferito rimanere anonimo; lo chiameremo Alfonso.
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La chiesa romanica di San Nicolao, Giornico.
Storia di Alfonso
“Il mistero resta anche per noi. Tutto è partito da mio nonno; io ero un bambino e vivevo a Cresciano. Quando avevo nove anni il nonno mi ha passato il dono di segnare le ustioni. Era la vigilia di Natale. Lo avevo già visto agire su persone ustionate: attuava gesti senza toccare, era una pratica intima perché sembrava partire in un mondo tutto suo e poi riusciva a fare in modo che le piaghe non si sviluppassero. Ero impressionato, lui era un punto di riferimento nella regione e io ero fiero che mi portasse con sé. Non posso entrare nei dettagli; mio nonno era un uomo di fede, mentre io da bambino non sapevo di che cosa parlasse, quando mi raccontava del suo dono. Posso dire che quella notte mi ha insegnato una specie di preghiera, qualcosa di legato alla credenza che esistono forze superiori che possono esserci vicine. Mi ha messo una mano sulla fronte e mi ha detto come seguire questo dono, come viverlo. Da dove arriva tutto questo non lo so. Conosco una signora di Giornico che lavorava in questo modo; mio nonno era toscano, lui diceva che il dono si può passare a una persona vicina, non per forza un parente e che la trasmissione non deve essere svolta in un luogo particolare. Ignoro chi avesse insegnato a lui. So che per lui era una cosa importante e bella. Però c’era un limite: non bisogna lucrarci, per nessun motivo al mondo, mi aveva detto. Lo spirito con il quale si segna è ancora più importante del segno. Anche io entro in un mondo a parte, e quando ci entro so che il mio agire avrà effetto; se non sto bene non funziona. Non è proprio un andare in trance: si tratta piuttosto di una specie di meditazione, di contemplazione, si sente qualcosa di intenso e di intimo. È molto bello. È come andare in un’altra atmosfera, per un momento breve, e non è affatto difficile tornare indietro”.
Le regole del sacro
Ne incontro alcuni, altri li sento al telefono. Una signora di Airolo mi racconta che ha ricevuto il dono per segnare qualcuno che ha il fuoco di Sant’Antonio. Un altro agisce sui porri, con un rituale legato ai sassi di fiume da legare in un sacchetto e buttare in una strada che non si percorrerà mai più. Una donna, leventinese, mi racconta che ha ricevuto il segreto di come preparare l’olio di San Giovanni, con i fiori che si cercano, si raccolgono e si lasciano al sole secondo un rituale preciso. In generale la trasmissione è orale, ma una segnatrice mi racconta di aver ricevuto una busta da aprire a Natale, con le parole da recitare, mentre a un’altra, una donna di Giornico, il dono è stato passato dalla suocera che a sua volta lo aveva ricevuto dalla nonna. Per tutti però si tratta di parole che ‘sembrano una preghiera cattolica’ e soprattutto che è un dono che si riceve con il cuore e si dà con il cuore: guai accettare ricompense. Si spezzerebbe. “Diventi un passaggio”, mi dice la signora di Airolo. E ancora: la guarigione funziona anche a distanza, non necessita della presenza, come se la mente avesse molto più potere di quello che sperimentiamo di solito. Anche Roberto Cefis conferma: “Mi hanno chiamato una sera per un’ustione negli Stati Uniti. Ho agito sulla fotografia. È guarita tutta tranne la spalla, che non era visibile sull’immagine. Quando mi hanno mandato la foto completa, le è passata anche lì”.
Diana Tenconi
Diana Tenconi: antropologa sociale
Per ampliare il contesto vado da Diana Tenconi, direttrice del Museo Etnografico di Leventina, che ha sede a Giornico. Diana è antropologa e mi offre una sostanziale documentazione sulle pratiche dette ‘magiche’ che circolavano in Valle e in Ticino. Ci sono testimonianze che risalgono al 1576, anno in cui Carlo Borromeo aveva indetto un’inchiesta svolta dai prelati che hanno raccolto informazioni dalle confessioni. Borromeo voleva naturalmente estirpare questo fenomeno, perché andava contro i dettami della Chiesa. Fra le pratiche magiche si annoverano la conoscenza e l’uso di erbe associati a preghiere, libri di esorcismi, attività di indovino. E ovviamente le streghe. Visto che un tempo non c’erano ancora i medici disponibili alle visite domiciliari, le persone si curavano con la farmacia della natura: le streghe non erano altro, di solito, che buone nonnine in grado di curare con decotti, impacchi e così via: “In generale ci si recava da una curatrice di un altro villaggio; la donna sapiente di casa tua era considerata una strega, quindi la condannavi, mentre quella del paese vicino ti era utile e quindi le davi più fiducia”. Il mistero oscuro deve essere recondito, altrimenti è facile sentirsene complici.
Queste persone spesso gestivano la cura dei vivi, ma anche alcune pratiche legate alla spiritualità e la delicata sfera che gira intorno alla morte. Chi conosceva (e in qualche modo controllava) gli elementi della natura era considerato anche più vicino a ciò che esiste di più naturale: la vita, quando inizia e quando si va a perdere chissà dove. Le erbe e la sacralità si mischiano, le parole e le preghiere si intersecano e la concentrazione della curatrice diventa il viaggio nell’aldilà della sciamana. Se questo aveva spaventato la Chiesa, con l’Illuminismo si vanno poi a separare definitivamente il sapere scientifico da quello non scientifico. Quasi del tutto.
Immagine tratta dal contributo “I sègn de bén. Tra magia bianca e pratica terapeutica popolare”, Valle Imagna, Bergamo; www.ruralpini.it/I-segni-del-bene.html
Un certo romanticismo
Dopo l’epoca che più duramente cerca di combattere la magia, verso il cuore dell’Ottocento, si inizia a rivalutare la figura del ‘buon selvaggio’, dei saperi ancestrali e di tutto ciò che accomuna anima e salute fisica. È probabile d’altronde che il cristianesimo abbia inglobato con il segno della croce e le parole delle sue preghiere qualche cosa di più antico e pagano. Per Diana Tenconi, anche chi studia i guaritori deve contestualizzare e capire che la nostra società odierna ha bisogno di contatto con natura e religione e che ha dunque aperture anche al di fuori della scienza e dell’ambito razionale di cui siamo improntati. “Nella Svizzera francese ci sono persone che recitano parole religiose per guarire o alleviare le condizioni dei malati e che lavorano all’interno degli ospedali, molto più che da noi”, spiega. “Questo per l’antropologo è significativo, perché ci dimostra come le persone, gli esseri umani, hanno bisogno di credere in qualcosa che va oltre i cinque sensi, oltre la conoscenza tangibile. Non basta questo mondo concreto. Le persone desiderano sconfinare in un immaginario arcano che è stato buttato fuori dalla porta secoli fa ma che continua a rientrare dalla finestra…”. E nelle valli, perché questa tradizione si è mantenuta meglio che in città? “Credo che qui siamo più vicini alla natura, più persone lavorano ancora a contatto con il bosco, la terra, il fiume. Ci sono più possibilità di conservare le conoscenze e di metterle in pratica, però anche, e forse soprattutto, in città ci sono erboristerie e studi di terapie alternative e questo ci fa capire di che cosa ha bisogno l’essere umano anche quando si sposta in zone urbane”.
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La chiesa romanica di San Nicolao, Giornico.
Un paese “speciale”
Giornico è il paese delle sette chiese. Secondo Roberto Cefis “parte tutto da lì”. Glielo diceva suo zio, che ha trasmesso il dono a sua mamma che lo ha passato a lui. “Tutto arriva da Giornico”. A Roberto capita di essere fermato per strada da ragazzi che gli dicono: “Tu sei il dottore che mi ha guarito da piccolo, quella volta che mi ero ustionato!”. Quando lo incontro, Roberto ha appena segnato una donna sfregiata dall’acido. “Sentivo il mio dito scottare, quando l’ustione è grave poi perdo sensibilità nell’indice, anche se non tocco mai il corpo della persona che segno; dopo, devo metterlo sotto l’acqua fredda per scaricare”.
Tuttavia è una gioia, dice, aiutare qualcuno: “Non bisogna avere paura delle cose che non si capiscono ancora”, dice. “Se puoi guarire qualcuno, perché non farlo?”. Come dargli torto. Ma come dice l’antropologa Tenconi, quello che più interessa di tutta questa storia è la carica simbolica del segno: la società in cui viviamo, perdendo la religione, dimenticando i gesti antichi carichi di senso e di mistero, ha lasciato un vuoto in tutti noi. Ognuno lo riempie come può. Un altro antropologo, Ernesto de Martino, ha scritto che i simboli religiosi permettevano di resistere al malessere, mentre oggi la democrazia laica si fonda esclusivamente sul benessere, dimenticando il problema di fondo: la partecipazione. “Gli individui hanno bisogno di partecipare attivamente all’esperienza morale che propone la nostra società, vogliono sentirsi protagonisti del proprio destino”. Per curare sé stessi, per sentirsi utili verso gli altri e allargare i confini della razionalità.
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La chiesa romanica di San Nicolao, Giornico.