Segreti. Che rimanga tra noi

Ci sono cose che non vogliamo o non possiamo dire (a tutti). Ma quali ricadute hanno queste verità nascoste sulla nostra salute?

Di Mariella Dal Farra

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Lo scorso 11 maggio Ann Katherine Mitchell, una signora inglese di 97 anni, è morta per le complicazioni comportate dal SARS-CoV-2. La sua parabola terrena è stata lunga ed edificante. Immatricolata nel 1940 a Oxford, fu una delle cinque ragazze ammesse quell’anno a un corso di matematica, materia che per definizione era ritenuta “inadatta a una donna”. Successivamente, trasferitasi con il marito a Edimburgo, Mitchell scrisse diversi saggi sugli effetti psicologici del divorzio sui bambini – un argomento che all’epoca era praticamente inedito –, contribuendo con la sua ricerca alla modifica della normativa scozzese sulla separazione. Consulente matrimoniale di professione, Ann ebbe presumibilmente una vita coniugale felice, coronata dalla nascita di quattro figli, e questo nonostante ci fossero alcune cose di cui non aveva mai parlato con il marito. Per esempio, non aveva fatto menzione di essere stata membro del gruppo di élite che contribuì a determinare gli esiti del secondo conflitto mondiale.

Non avrei mai pensato…

Subito dopo la laurea, nel settembre del 1943, Ann Katherine Mitchell era stata reclutata dal servizio segreto britannico e assegnata alla squadra di matematici il cui compito era decrittare il codice cifrato usato dai nazisti. Il suo compito consisteva nell’escogitare i menù d’istruzioni per le macchine ideate da Alan Turing allo scopo di “espugnare” i messaggi criptati che venivano generati dalle famose macchine “Enigma”, in dotazione alla Germania. Poiché i codici di criptatura venivano cambiati ogni ventiquattr’ore, la squadra era all’opera tutti i giorni. “La consapevolezza che il nostro lavoro era urgente rappresentava una sfida costante: nella Capanna 6 – il dipartimento deputato alla decrittazione dei codici Enigma, nda – lavoravamo contro il tempo. Era un compito implacabile e faticoso. Ciononostante, amavo quel lavoro” (“Ann Mitchell obituary” , Michael Smith, The Guardian, 27/5/2020).
Nel 1945, quando la guerra finì, Mitchell fu informata del fatto che il suo contributo non era più necessario e le venne chiesto di “dimenticare” le macchine Enigma e tutto ciò che aveva fatto a Bletchey Park. Lei tenne fede al patto di riservatezza e, per più di cinquant’anni, non disse a nessuno dei suoi trascorsi, fino a quando un ex commilitone non pubblicò un libro sull’argomento: solo allora raccontò al marito della sua collaborazione con il Foreign Office. Il signor Mitchell affermò di essere rimasto “piuttosto sorpreso nell’apprendere che mia moglie aveva lavorato sui codici Enigma, ma ho sempre saputo che era una donna intelligente, quindi non rimasi shockato” (“Code-breaker who kept war secrets until world knew”, The Scotsman, 25/9/2001). 

Prezioso perché misterioso

È dunque possibile che la compartimentazione mentale eretta da un segreto, per quanto “nobile” come in questo caso, non pregiudichi la qualità di una relazione, d’amicizia o magari d’amore? In fondo, quando decidiamo di tenere riservato qualcosa che sappiamo o che ci riguarda, stiamo intenzionalmente circoscrivendo una parte di noi stessi che non vogliamo l’altro veda. E se il solco è abbastanza profondo, può darsi che dopo un po’ non la “vediamo” più neanche noi, perché sul piano psicologico tenere un segreto è sempre un’operazione – per quanto circoscritta
o innocua – di tipo dissociativo. 
Secondo Alfred Gross, psicoanalista di prima generazione e autore di un articolo sull’argomento, “il segreto ci appare come asociale, perché perde le sue proprietà non appena il suo contenuto diviene di dominio pubblico. La sua essenza consiste nel fatto che una singola persona è a conoscenza di qualcosa che tutti gli altri ignorano. Questa esclusione contiene le dinamiche del concetto di segreto ed è quindi lì che risiede il suo potere” (Alfred Gross, “The secret”, Bulletin of the Menninger Clinic, 1951). Il suo potere e, aggiungeremmo, il suo valore: lo sappiamo fin da piccoli, che i segreti sono merce preziosa; per questo li scambiamo soltanto con i migliori amici, e per questo i migliori amici talvolta diventano tali proprio perché si condivide con loro un segreto. La natura intrinsecamente “divisiva” del segreto traccia una linea di confine fra chi sa e chi non sa, e poiché l’informazione comporta spesso un vantaggio per chi la possiede, l’inclusione tende a rappresentare un privilegio. Il segreto conferisce potere e il gruppo di potere molto spesso è tale in virtù dell’accesso a un sapere riservato. 

Ricadute psicologiche

Quindi oltre che “asociale” il segreto è anche antidemocratico? Il pensiero corre immediatamente alle lobby politiche ed economiche, ai “segreti di Stato” che tanta influenza possono avere sulla vita quotidiana delle persone. Ma anche alle società segrete che, nel corso dei secoli, hanno impresso un’accelerazione in ambito civile (per esempio la Giovine Europa, fondata a Berna il 15 aprile 1834) o filosofico-religioso (le prime comunità cristiane, perseguitate per il loro carattere dissidente e per le presunte attività cospirative). 
Tornando all’aspetto psicologico, di solito il segreto non è visto di buon occhio nelle stanze di psicoterapia, dove tende ad accompagnarsi all’aggettivo “patogeno”. Questo perché i segreti che assumono rilevanza clinica sono tipicamente quelli che suscitano senso di colpa e/o vergogna, sentimenti amplificati fino all’intollerabile proprio perché il divieto di parlare preclude la possibilità di condividere ed elaborare il senso di quanto è successo. 
I preconcetti degli psicologi sul segreto risalgono quantomeno a Freud, che già un secolo fa scriveva sulle conseguenze fisiche e psicologiche manifestate da quei pazienti che nascondevano informazioni all’analista e/o a sé stessi. L’auto-dissimulazione, una caratteristica di personalità che si riferisce alla tendenza a nascondere attivamente informazioni personali che si reputano essere negative, è di fatto correlata all’aumento di sintomi medici e psicologici (Larson & Chastain, 1990. “Self-concealment: Conceptualization, measurement, and health implications”, Journal of Social and Clinical psychology). 
Ma tenere un segreto non significa essere dei dissimulatori di professione e, inoltre, esporsi con qualcuno che non sia sufficientemente empatico, o che magari si percepisce come giudicante, non comporta alcun beneficio: al contrario, può farci sentire vulnerabili o “sbagliati”. 

Tutto bene? Dipende…

Dei vantaggi e degli svantaggi comportati dal segreto si è occupata fra gli altri Anita E. Kelly, psicologa ricercatrice secondo la quale è il mantenere un’attitudine riservata a oltranza (alta tendenza all’auto-dissimulazione) a coincidere con una maggiore frequenza di sintomi, fisici o psicologici; non tanto l’avere un segreto di per sé. “A causa del potenziale fardello comportato dalla segretezza, molte persone credono che la confessione sia ‘un buon viatico per l’anima’: un tema che viene spesso rappresentato nei talk-show e nei film mainstream”. Ed è vero che “parlare o scrivere di esperienze traumatiche comporta benefici per la salute, per esempio meno visite mediche (Pennebaker & Beall, 1986; Pennebaker, Colder, & Sharp, 1990) e un migliore funzionamento del sistema immunitario (Pennebaker, Kiecolt-Glaser, & Glaser, 1988; Petrie, Booth, Pennebaker, Davison & Thomas, 1995). […] Vi è inoltre evidenza del fatto che le persone che tendono a nascondere informazioni di carattere negativo o stressante siano proporzionalmente più depresse (Kelly & Achter, 1995), ansiose (Larson & Chastain, 1990), timide (Ichiyama et al., 1993) e con un’autostima più bassa (Ichiyama et al. 1993)” (Kelly et al., “What is it about revealing secrets that is beneficial?”, Personality and Social Psychology Bulletin, 2001).
Contemporaneamente, però, rivelare informazioni personali che sono suscettibili di porci in cattiva luce può avere ricadute sia in termini intrapsichici (auto-percezione negativa) che interpersonali (compromissione dei rapporti di amicizia o lavoro). Basandosi su una serie di esperimenti da lei condotti, Kelly giunge alla conclusione che rivelare i propri segreti comporti un aumento del benessere psicofisico solo nel caso in cui il confidente prescelto sia fidato, non giudicante e capace di fornire nuove prospettive su quanto gli viene raccontato. Ciò vale soprattutto nei casi in cui il segreto riguardi un evento traumatico o penoso perché in questi casi la prospettiva fornita dall’interlocutore può facilitare una comprensione diversa di quanto è accaduto, fornendo così una “chiusura” a quella sensazione di “compito interrotto” che l’impossibilità di comunicare spesso comporta.

IL SEGRETO NELLA STANZA DI PSICOTERAPIA

Un dato abbastanza controintuitivo emerso dalle ricerche di Anita Kelly è che il segreto viene praticato anche nell’ambito della psicoterapia, e non solo nella forma del segreto professionale, che rappresenta uno dei requisiti di base per lo svolgimento del lavoro, ma anche da parte dei pazienti, che spesso tengono riservate alcune delle informazioni che li/le riguardano. In una ricerca condotta nel 1998, Kelly ha trovato che più del 40% delle persone tiene segrete informazioni ritenute rilevanti ai propri psicoterapeuti, ma il dato ancora più sorprendete è che questa tendenza non era affatto correlata a un aumento dei sintomi psicologici bensì a una loro riduzione (Kelly, A. E. “Clients’ secret keeping in outpatient therapy”, Journal of Counseling Psychology, 1998). 
Secondo la ricercatrice, questo dato depone a favore dell’ipotesi secondo la quale uno dei fattori di efficacia della psicoterapia sarebbe l’elaborazione di narrative biografiche significative, attraverso le quali i dati esperienziali trovano coerenza e direzione. La selezione degli elementi considerati a questo scopo comporta automaticamente delle omissioni, ma questo potrebbe essere funzionale alla descrizione della nostra traiettoria esistenziale. Inoltre, la capacità di scegliere che cosa rivelare di noi e cosa invece mantenere riservato è indicativa della nostra capacità di auto-tutela, e forse anche per questo tende a coincidere, a parità di altre condizioni, con un migliore esito psicoterapeutico.

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