Salvare una vita è sempre una buona idea

Nelle acque del Mediterraneo continuano a morire esseri umani, leggi e diritti. Spesso nel silenzio. Ne abbiamo parlato con Cecilia Strada della ONG ResQ

Di Natascia Bandecchi

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

ResQ – People Saving People nasce per salvaguardare la vita e i diritti di chi si trova in pericolo nel Mediterraneo, attraverso missioni di ricerca e soccorso in mare e attività di sensibilizzazione a terra. Responsabile della comunicazione è oggi Cecilia Strada, ex presidente dell’ONG Emergency e figlia del compianto Gino Strada.

“E il mare concederà a ogni uomo nuove speranze, come il sonno porta i sogni”, queste le parole di Cristoforo Colombo quando salpò dall’Andalusia, ancora ignaro di quello che avrebbe scoperto. Speranze e sogni che spesso rimangono infranti sulle onde del Mediterraneo da migliaia di esseri umani in cerca di una vita migliore. Secondo l’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (IOM), dal 2014 al 2021 sono stati almeno 20mila i morti e dispersi nel Mediterraneo Centrale. “Ci siamo uniti per dare un segno concreto e contrastare la cultura dell’indifferenza”, questa è una delle frasi che troneggiano sulla pagina web di ResQ e che riecheggiano non solo nei pixel dello schermo, ma anche oltre. “Sento che prima o poi guarderemo indietro un po’ con orrore, un po’ con stupore, a quegli anni in cui abbiamo accettato che il Mediterraneo fosse diventato un cimitero. È il mare in cui portiamo i nostri figli a fare il bagno d’estate e, poche miglia più in là, per altri bambini è un cimitero senza tombe”. Cecilia aggiunge che in quelle acque muoiono più di 1’500 persone all’anno, ma soprattutto muoiono i diritti. “Nel 2021 sono stati più di 32mila, tre volte più dell’anno prima, gli esseri umani respinti dalla Guardia costiera libica verso la Libia. Tutto questo accade nella più totale indifferenza, senza dimenticare le battaglie cui sono sottoposte le ONG che operano in mare e che vogliono semplicemente salvare vite umane”.

Cosa si può fare contro l’indifferenza?

“Bisognerebbe cambiare il sistema e aprire dei canali d’accesso sicuri e legali per arrivare in Europa e strappare le persone (Cecilia non li chiama mai migranti) dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani”. ResQ – come le sue colleghe ONG che si mettono al servizio per salvare vite umane – si trasforma in una delle infinite gocce nel mare che cerca di cambiare il sistema: con fatica e determinazione, ma soprattutto con passione per quello che fa e per come lo fa.

La prima missione in mare

Era il 7 agosto del 2021 e a bordo di ResQ People (così si chiama la nave) c’era anche Cecilia Strada per la sua prima missione in mare. “Più o meno sapevo già cosa aspettarmi, in passato avevo già vissuto un’esperienza simile su un’altra ‘imbarcazione salvavite’. Ero particolarmente emozionata quel giorno e mi sono detta appena salpati: l’abbiamo fatto davvero! Il tutto accompagnato da una valle di lacrime. Il 13 agosto abbiamo fatto il nostro primo soccorso in mare: era una barca di legno malmessa con a bordo 84 persone. È stato fantastico anche se quel giorno, era venerdì, moriva mio padre Gino. È stata una giornata profondamente complessa”. Cecilia continua a parlare, siamo collegate via Zoom, nonostante uno schermo ci divida percepisco la sua grinta, la sua determinazione. Continua raccontando che due giorni dopo il primo salvataggio in mare ResQ People portava a segno altri due soccorsi. “Avevamo 166 naufraghi a bordo, c’erano molti bambini, donne e donne incinte. Le condizioni generali delle persone erano abbastanza buone nonostante quello che avevano passato sia in acqua che sulla terraferma”.

Difendere la vita

Non bisogna mai dare per scontato che quello che sia giusto per noi, lo sia anche per gli altri. Chiedo a Cecilia Strada cosa direbbe a chi non apprezza quello che fa. “Se ne farà una ragione. Penso di fare il minimo indispensabile per essere un essere umano decente. Non credo di fare nulla di straordinario. Mi sento fortunata perché ho la possibilità di fare quello che faccio che, per me, è semplicemente la cosa giusta. Non è apprezzato? Pazienza, salvare una vita è sempre una buona idea!”.


Una foto di Cecilia con il padre Gino Strada, medico e fondatore di Emergency, morto nell’agosto del 2021.

LA STORIA DI BEREKHET SANTO: DALL’ERITREA ALLA SALVEZZA

A proposito di vita, di resilienza, di storie da raccontare, le prossime righe schiuderanno la storia di un giovane uomo – all’epoca dei fatti nemmeno maggiorenne – che è scappato dalla sua terra d’origine: l’Eritrea. Il suo nome è Berekhet Santo, nato nel 1987 ad Asmara.
Incontro Santo (si fa chiamare così) a bere il classico caffè in un bar. Ha gli occhi scuri e profondi ed ha la barba fatta di fresco. Dal suo zaino tira fuori il suo lavoro di approfondimento di cultura generale, presentato al Centro Professionale di Trevano e me lo porge. “Questo è per te, ne ho fatta stampare qualche copia in più ed è un piacere regalartelo.” Lusingata dal suo omaggio noto subito il titolo, piuttosto esaustivo: “Il mio viaggio verso l’Europa”. Leggo le prime righe insieme a lui: “Sono di fede ortodossa, non credo che l’universo sia nato con il Big Bang, eppure è stata sicuramente un’esplosione a dare inizio alla mia odissea”.

La fuga

L’Eritrea è stata per lunghi anni nell’occhio del ciclone di conflitti e guerre civili. A tutt’oggi, nonostante l’enigmatica pace apparentemente siglata con la confinante Etiopia, i dissidi non danno cenno di scomparire. Gli eritrei che scappano dalla loro terra sono migliaia. Fuggono dalla mancanza di rispetto dei diritti umani peggiore al mondo, basti pensare che nel World Press Freedom Index 2021 sono al 180esimo posto, all’ultimo di questa ignobile classifica.
Santo è obbligato ad arruolarsi e a seguire un duro addestramento militare, per mesi impara a maneggiare armi e si allena per essere all’altezza di affrontare la guerra appena iniziata con l’Etiopia. “A ognuno di noi è stato assegnato un reparto preciso: io mi dovevo occupare di raccogliere i feriti e di caricarli sui camion diretti all’ospedale. Prima di allora non avevo mai visto tanti feriti tutti insieme e, soprattutto, non con delle mutilazioni così gravi”. Santo decide per la via di fuga, è insopportabile sostenere una vita così. “L’intenzione inizialmente era quella di raggiungere il Sudan per poi capire dove andare dopo. Abbiamo camminato per giorni nonostante il caldo insopportabile e le varie insidie in cui potevamo imbatterci: iene, avvoltoi, serpenti, senza contare il pericolo dei Jihadisti che avremmo potuto incontrare o, ancora peggio, i trafficanti di esseri umani. Orientarsi era difficile e, come se non bastasse, il percorso era disseminato di cadaveri di persone morte di stenti”. Santo continua dicendo con l’amaro in bocca che, alla morte, dopo tanto orrore visto nel tempo, ci si può quasi abituare.

In viaggio

“Da un campo profughi in Sudan – è stato davvero durissimo stare lì – raggiungo, dopo un viaggio terrificante nel deserto, stipato su un pick-up con altre 35 persone, la Libia”. Tripoli piace a Santo, è una città bella e la vita non è troppo cara. L’unica cosa che stona – aggiunge lui – sono i suoi abitanti: persone piene di pregiudizi, ignoranza e cattiveria, che disprezzano i profughi. È tempo di andarsene da lì e quel giorno tanto atteso arriva prima del previsto: “Sono riuscito a farmi mandare i soldi da mia sorella per affrontare la traversata in mare e raggiungere l’Italia. Finalmente siamo riusciti ad imbarcarci. Era notte e ci hanno fatto entrare in mare; l’acqua ci arrivava fino al petto”. A bordo di quella barca c’erano 130 persone anche se lo spazio effettivo era solo per 50. “C’erano eritrei, tunisini, etiopi, sudanesi e altri che provenivano dall’Africa centrale. Proprio uno di questi si è offerto di guidare la barca. Chi guidava la barca non doveva pagare”. I libici consegnano una bussola al “capitano” indicandogli la direzione verso l’Italia. “Il viaggio non va come ci si aspetta, i passeggeri rimangono bloccati in mare per 2 giorni e, come se non bastasse, il motore si guasta e l’imbarcazione inizia a riempirsi d’acqua: panico, urla, lacrime si accendono tra di noi ma, nonostante la paura, facciamo di tutto per mantenere la calma e svuotare la barca dall’acqua”.

Terra!

“Di notte una nave da turismo diretta verso la Tunisia ci avvista e segnala alla Guardia costiera la nostra posizione. Dopo una manciata di ore ci vengono a salvare e, non ci pare vero, dopo poco tocchiamo terra: siamo a Lampedusa. Ringrazio Dio per questo”. La storia di Santo è una di quelle a lieto fine. Vive dal 2005 in Svizzera, si è sposato, ha due bimbe. Ha avuto l’opportunità di integrarsi pienamente in Ticino – e di questo ringrazia tutte le persone che lo hanno accolto –, seguire corsi di formazione, intrecciare relazioni interpersonali e soprattutto sta per coronare il suo sogno mettendosi in saccoccia un diploma di esercente e, chissà, anche aprire un ristorante eritreo a Lugano. Mi rimane impressa una riflessione di Santo prima di salutarlo (deve andare in biblioteca, a studiare): “Mi sento fortunato, sono vivo e posso raccontare la mia storia. Purtroppo ci sono persone che non possono fare altrettanto perché non ce l’hanno fatta. Attraverso i miei racconti desidero far loro omaggio”.

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