Doppio turno: quelle vite tra fabbrica e pallone
Storie di squadre formate da uomini che, davanti a forni e catene di montaggio, sognavano un campo dove diventare campioni. Almeno per 90 minuti
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
Ogni maniaco del pallone va rincorrendo momenti che possano racchiudere l’essenza stessa del calcio. Sono perlopiù gesti tecnici, a volte esultanze. Da quando esiste YouTube abbiamo un archivio pressoché infinito di gol, tiri, parate, assist, finte e scivolate che poi ciascuno infila – in un mix mai uguale, sospeso tra gusto estetico, età e tifoseria – nel suo olimpo personale. Video che durano qualche manciata di secondi, perché se vuoi cogliere l’essenza non puoi tirarla per le lunghe. Chiedete a un amante del calcio di spiegarvi il suo gioco preferito e vi mostrerà uno slalom di Maradona, uno scatto di Ronaldo, uno stop di Zidane o un qualche gol che sfida le leggi della fisica. Il calcio è movimento. Quindi pochissimi vi mostreranno una foto, nessuno vi mostrerà un quadro. E se mai ve lo mostrerà ci sarà almeno qualcuno che ci gioca dentro.
Andando alla partita
Esiste però un quadro che rappresenta l’essenza del calcio dove non si vede nemmeno un giocatore, non c’è una palla, non c’è una porta. A dirla tutta si vede a malapena un angolo del campo. Il quadro si chiama Going to the Match (“Andando alla partita”) e mostra una folla che si affretta verso uno stadio al cui interno si vede una tribuna già piena. Tutt’intorno è fumo, mattoni e fabbriche. Non c’è nemmeno un pallone, ci sono almeno 5-6 ciminiere. Guardi Going to the Match e vedi tutto, eppure non c’è quasi niente. Per farlo bisogna essere bravi, e L.S. Lowry lo era, e bisogna essere nati in un posto e in un’epoca dove il calcio e le fabbriche sono tutto. Lowry era nato a Stretford, quartiere (allora città) della Grande Manchester, a due passi dallo stadio del Manchester United, l’Old Trafford. Di Lowry ci sono altri quadri che mescolano il calcio e il popolo delle fabbriche come se fossero una cosa sola. In The Football Match si vede in lontananza un campo con attorno una folla enorme, eppure minuscola, perché Lowry sceglie di mettere davanti e dietro alla partita una sovrabbondanza di ciminiere, industrie e fuliggine. Il calcio rimane come inghiottito dalle fabbriche, eppure è il cuore del quadro, come se non potessero esistere l’uno senza le altre. Infatti non possono.
Laurence Stephen Lowry (1887–1976) è stato un pittore britannico. Molti dei suoi disegni e dipinti ritraggono Salford e le aree circostanti, tra cui Pendlebury, dove visse e lavorò per più di quarant’anni.
Una riproduzione di ‘Going to the Match’. Opera molto nota del 1953, il dipinto che mostra la folla dirigersi verso lo stadio dei Bolton Wanderers, Burnden Park, fu messo all’asta nel 1999. Valutato 500mila sterline, ad aggiudicarselo fu l’Associazione dei calciatori inglesi (Pfa) per un milione e 926mila sterline. L’allora segretario della Pfa disse: “Speravo di acquistarlo per molto meno, ma non potevamo non comprarlo. Questo dipinto cattura l’atmosfera dei tifosi che vanno allo stadio e rappresenta l’anima del gioco”.
Le Chaudron. Lo stadio di Saint-Etienne, chiamato Chaudron (calderone), proprio perché in mezzo alle fabbriche. Nella foto un momento di una partita negli anni Quaranta, in quello che era definito come un ‘mouchoir de poche’.
Palloni e ciminiere
Le capitali storiche del calcio europeo sono tutte città operaie o portuali: Liverpool e Manchester in Inghilterra, Glasgow in Scozia, Torino e Milano in Italia, tutti i club della Ruhr in Germania (Borussia Dortmund, Borussia Mönchengladbach, Schalke 04…), St. Etienne e Nantes in Francia. Roma e Berlino sono periferia del pallone, Parigi lo è stata fino a ieri, Londra ha iniziato a vincere da poco a livello internazionale. Resta Madrid, eccezione dovuta alla dittatura di Franco, che lucidava il Real come argenteria da mettere in vetrina. Opere come quelle di Lowry non potevano che emergere da quell’Inghilterra profonda dove il calcio è nato, nei college (come costola del rugby), per poi prendere subito la strada più polverosa. La sua culla è Sheffield (il primo club è stato fondato lì nel 1857), tutt’intorno squadre che dicono qualcosa solo ai più fanatici del calcio inglese e poco o nulla alle guide di viaggio: Burnley, Bradford, Stoke, Notts County, Huddersfield… tutte squadre di luoghi le cui fabbriche hanno divorato prima le città e poi loro stesse, ma mai il calcio, che rimane l’unico segnale di vita tra centri storici scarnificati e poli industriali semiabbandonati.
Il Sochaux. La squadra francese nella stagione 2012-2013, con giocatori e dirigenza in posa all’interno degli stabilimenti dell’azienda automobilistica PSA (Peugeot-Citroën) a Montbéliard. L’anno seguente il costruttore venderà il club.
Operai, marinai, ferrovieri
Dove non c’erano fabbriche per trovare terreno fertile in cui seminare calcio, c’erano gli operai, e dove non c’erano gli operai c’erano i marinai, che altro non sono che operai di fabbriche galleggianti. Hanno portato il pallone ovunque, anche perché bastava solo quello per giocare. Sappiamo tutti, fin da bambini, che una porta si trova sempre, e dove non c’è si può costruire lì per lì, o anche solo immaginare. Porto, Lisbona, Marsiglia, Atene, Tunisi, Genova, Bilbao, Barcellona, Buenos Aires, Montevideo, Rio, Porto Alegre. Il calcio è diventato grande seguendo prima le rotte marittime e poi la ferrovia, altro luogo di lavoro duro e spazi giganti, dove srotolare binari e far rotolare palloni.
Basta guardare certi nomi, che si ripetono quasi all’infinito, Lokomotiv Mosca, Lokomotiv Sofia, Lokomotiv Tbilisi e le loro variazioni linguistiche, come lo Zeljeznicar, in Bosnia, o certe storie, come quella del glorioso – e ormai decaduto – Peñarol, figlio sudamericano dei ferrovieri emigrati da Pinerolo verso l’Uruguay. Squadre come il Rosario Central o il Central Cordóba prendono il nome dalla Ferrocarrill Central Argentino, la ditta che espandeva le ferrovie lungo il Paese. Ancor più evidente è il legame con il Ferro Carrill Oeste. In Tunisia ha superato il secolo di vita lo Sfax Railways, mentre in Romania c’è il Cfr Cluj, la cui connotazione ferroviaria è nascosta dalla sigla (‘Cfr’ sta per Caile Ferate Romane), ma per rimarcare le sue origini ha messo sul proprio stemma un treno in corsa. Dal Mozambico all’Uzbekistan, dalla Bolivia al Botswana, dalla Turchia al Vietnam, treni e calcio si sono portati l’uno con l’altro in ogni angolo di mondo. Ci son poi squadre, alcune famosissime, che portano direttamente il nome della fabbrica di riferimento, come il Bayer Leverkusen (il cui soprannome, poco fantasioso, è “aspirine”) e il Psv Eindhoven, vincitore di una Coppa dei Campioni, la cui sigla sta per Philips Sport Vereniging. In Italia c’era la Lanerossi Vicenza, che sfiorò lo scudetto con Paolo Rossi.
Zenica (Bosnia). Il vecchio campo dell’Nk Celik Zenica, squadra della città più inquinata di Bosnia, sede di uno dei più grandi poli metallurgici dell’ex Jugoslavia. Il nome Celik in bosniaco significa “acciaio”.
Arsenali, miniere, fonderie
L’industria pesante ha partorito invece nomi storici come Arsenal (da arsenale) e Spartak Mosca, mentre il West Ham in origine si chiamava Thames Ironworkers, ragion per cui il suo stemma è formato da due martelli incrociati e i suoi soprannomi sono Hammers e Irons. I vari Shakhtar dell’Est europeo, tra cui quello di Donetsk, il più noto, sono nati per far svagare i minatori. E tra le squadre di miniera, non si può non citare il Cobresal, in Cile, che ha addirittura un elmetto da minatore appoggiato a un pallone come simbolo. Sempre in Cile gioca il Huachipato, i cui tifosi e giocatori sono chiamati direttamente Los de la Usina (“Quelli della fabbrica”): lo stemma della squadra ha una doppia particolarità, riprende quello dell’associazione dell’acciaio Usa, lo “Steelmark”, e curiosamente è condiviso con una squadra di football americano, i Pittsburgh (altro luogo di fabbriche e acciaio) Steelers.
Nella Liguria delle industrie, quando c’erano le industrie, si poteva assistere a sfide come Italsider-Culmv (la storica compagnia dei portuali genovesi), in terreni di gioco ricavati tra un groviglio di tubi e una ciminiera, dove per entrare bisognava farsi largo tra sbuffi di fumo e cavi sospesi, luoghi in cui il campo di calcio sembrava un elemento estraneo solamente agli occhi di chi non capiva che quella era un’irrinunciabile messa laica, il posto in cui le amicizie potevano cementarsi o distruggersi, dove l’ultimo degli operai poteva essere la star della squadra e il capoturno marcire in panchina. Campi che erano in realtà indispensabili al funzionamento delle fabbriche tanto quanto macchinari, depositi, ciminiere e centri di controllo, al punto che la loro successiva sparizione è stata vissuta come un vero e proprio lutto dalle comunità locali. La Bagnolese, squadra dell’Ilva di Napoli, giocava in un campo esattamente all’altezza dei forni a calce: rifondata tre volte, lo scorso anno è ripartita dalla Terza categoria, il livello più basso dal calcio italiano. In Irlanda del Nord sopravvive l’Harland & Wolff Welders Football Club, squadra dei cantieri di Belfast che costruirono il Titanic, che mantiene come colori sociali lo stesso giallo e nero delle gru del porto. Perché funzionava così: prima c’era il luogo, l’appartenenza, poi nasceva la squadra.
Ora va al contrario
Oggi sta accadendo l’opposto: l’esempio più lampante è il marchio Red Bull, che investe scegliendo il luogo non per la storia che si porta dietro, ma per calcoli economici. Arriva e l’appartenenza, se c’è, la rade al suolo, cambia i colori sociali mettendo quelli aziendali, in una simbiosi simile eppure lontanissima dalla squadra dei portuali di Belfast; e bara anche un po’ coi nomi, se costretta (in Germania non potendo per regolamento avere il nome di uno sponsor, la squadra usa le iniziali della Red Bull: si chiama RB Lipsia, da Rasen Ballsport). Red Bull ha una squadra in Austria, una in Brasile, un’altra negli Stati Uniti. Ci hanno provato anche in Ghana, ma non ha funzionato. Quando non va si chiude tutto, come una filiale di un qualunque marchio che non produce utili. Dove funziona, e di solito funziona, Red Bull “mette le ali” alle sue squadre, regalando calcio d’alto livello in cambio dell’anima. Perché con i soldi ti illudi che per tutto ci sia un prezzo. Non è così, come dimostra una vecchia storia con protagonista Angelo Massimino, storico padre padrone del Catania, che alla critica “presidente, a questa squadra manca amalgama” , rispose: “Ditemi dove gioca che lo compro”.
FOOTBALL CLUB BODIO: FERRO e PALLONE
Fondato il 5 aprile 1919, la storia del Football Club Bodio è segnata da alcuni decenni vissuti “ai piani alti” del calcio cantonale. Raggiunta la Prima Lega e vincitore nel 1948/49 e nel 1950/51 di due Coppe Ticino, il club raggiunse l’apice all’inizio degli anni Sessanta, quando giocò tra il 1961 e il 1963 due stagioni nell’allora Divisione Nazionale B (l’attuale Challenge League). Come fu possibile per un piccolo comune, che ancora negli anni Cinquanta raggiungeva a malapena il migliaio di abitanti, garantire giocatori, preparazione e capacità di gioco? “L’alta qualità del team era garantita anche dalla presenza di parecchi dipendenti della Monteforno, che la mattina lavoravano e al pomeriggio si allenavano nel vicino campo di calcio”, come ricordava in occasione del centenario del club il presidente Diego Pesenti (laRegione, 13.3.2019). In quegli anni la manodopera era soprattutto straniera (in particolare italiana), e l’acciaieria era la maggiore industria del cantone.
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Il campo della società calcistica del comune leventinese. Costruito nel 1945, sorge a due passi dalla storica centrale elettrica della Vecchia Biaschina e a sud di quelli che diventeranno, a partire dal 1946, gli stabilimenti dell’acciaieria Monteforno SA di Bodio-Giornico (edifici che in questa immagine non si vedono). Negli anni Settanta l’azienda arrivò a occupare oltre 1’700 dipendenti tra Svizzera, Italia e Stati Uniti.
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