Biennale Architettura Venezia 2021. Visioni svizzere in Laguna

“Nell’opera che presento a Venezia c’è la mia Svizzera. Tutto è cominciato lì: facevamo le torri, le capanne sugli alberi, nel bosco” (Not Vital)

Di Farian Sabahi

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.

“Il mio lavoro nasce in Engadina, la mia terra mi ha dato la possibilità di costruire su una solida base per il progetto che ho chiamato SCARCH, una parola che unisce scultura e architettura”. Inizia così la conversazione con l’artista svizzero Not Vital, classe 1948. Siamo sull’isola di San Giorgio Maggiore, di fronte a Piazza San Marco, all’interno della basilica palladiana sono collocate diverse opere dell’artista. L’intento dei monaci è recuperare il dialogo tra Chiesa e Arte Contemporanea. Carmelo Grasso, direttore e curatore della Benedicti Claustra, organizzazione no profit dell’Abbazia di San Giorgio Maggiore, ci lascia accomodare sugli stalli della Sala del Capitolo. Alle nostre spalle, il dipinto di San Giorgio che uccide il drago, attribuito alla bottega di Domenico Tintoretto. 


Not Vital

Not Vital, ci parli del lavoro che presenta qui alla Biennale Architettura…
“A Venezia ho inserito una casa nella casa: una torre alta 13 metri per vedere il tramonto, collocata tra le due navate della Chiesa di San Giorgio Maggiore. Tecnicamente, è stato difficile: non ho avuto a disposizione una gru, non abbiamo potuto saldare. È stato un po’ come inserire una barca in una bottiglia. Dopo la Biennale la torre andrà nell’isola Fangasito nel Pacifico meridionale, è stata preparata per riuscire a tenere quei grandi venti che soffiano nell’Arcipelago di Tonga. Questa torre è l’ultima di una serie distribuita sui diversi continenti: la prima in fango e paglia ad Agadez, in Niger; la seconda in legno, è in Amazzonia; la terza in cemento a Tarasp (GR) in Svizzera; questa è la quarta, in alluminio; la quinta sarà a Ulaanbaatar, in Mongolia”. 

Lei ha lavorato a lungo in Niger, dove ha dato vita alle opere in argento presenti alla Biennale Architettura. Da dove nasce il legame con l’Africa?
“Il Niger mi ha aperto una porta: lì ho cominciato a costruire in modo non convenzionale, creando un habitat, una casa, una scuola. È uno dei Paesi più poveri al mondo, i bambini erano 150, ho costruito una specie di teatro pensando che si sarebbero potuti sedere in posizioni diverse, ma i bambini erano diventati quattro volte di più e la scuola è sparita, ad avere il sopravvento è stata la scultura cinetica. In Europa non potrei costruire una scuola. In Africa non ci sono divieti”. 


Not Vital: ‘House to Watch the Sunsetʼ (2021). Foto di Eric Powell; per concessione dell’artista.

Lei è certamente un artista di successo, quanto è importante la restituzione?
“Nietzsche scrisse che l’amicizia ha più a che fare con il prendere che con il dare. Andare in Africa come missionario è sbagliato: bisogna poter ricevere. Nel mio caso, ho avuto la possibilità di costruire una scuola in Africa e i bambini l’hanno trasformata. Quando si fa così, la modalità sociale funziona. Spesso il programma Aid for Africa non funziona: non puoi solo elargire denaro, aspettandoti che ti ringrazino. Devi pensare a quello che puoi prendere, a quello che puoi imparare”. 

La sua opera è esposta in una chiesa consacrata. Lei crede in Dio?
“Credo nell’energia positiva”.

Il curatore della Biennale, Hashim Sarkis, ha posto la domanda: ‘How will we live together?’ Per lei quanto è importante vivere insieme?
“Nell’ultimo anno, con la pandemia, ci siamo resi conto di quanto sia rilevante. A me sta a cuore portare avanti progetti tra architettura e scultura, con una dimensione sociale. Senza dimenticare l’Africa, come già detto. Il 20 giugno andrò in Yemen, un Paese devastato da sei anni di guerra… Lì si apriranno altre possibilità sulle modalità di vita insieme”. 


Foto di gruppo, maggio 2021: il team che ha lavorato allo Swiss Pavilion – Biennale di Venezia. Da sinistra a destra, Mounir Ayoub, Vanessa Lacaille, Fabrice Aragno e Pierre Szczepski (KEYSTONE/Gaëtan Ballyt).

VANESSA LACAILLE – Cocuratrice del padiglione Svizzera

“Il libro che ci ha accompagnati nell’elaborazione del nostro progetto ‘oræ – Experiences on the Border’ è Finzioni di Jorge Luis Borges. Se il romanzo mescola conoscenze precise e finzione totale, il nostro obiettivo è a metà strada tra la precisione assoluta e il sogno” , afferma l’architetto Vanessa Lacaille, soffermandosi sul fatto che “in latino oræ vuol dire ‘confine’ ”. Originaria dell’isola di Réunion, Lacaille è curatrice del Padiglione Svizzera alla 17esima Mostra Internazionale di Architettura (visitabile fino al 21 novembre) insieme al giornalista tunisino Mounir Ayoub, al cineasta Fabrice Aragno e allo scultore Pierre Szczepski. “Quest’avventura è nata due anni fa, ci siamo posti la domanda A che cosa somiglia la frontiera? Non è solo una linea che separa territori, ma uno spazio condiviso, che va vissuto. Gli architetti si occupano poco di confini ma proprio qui l’architettura può mettersi in collegamento con la politica”. Il gruppo di lavoro interdisciplinare di Lacaille ha così allestito un camion come atelier ed è partito per incontrare gli abitanti della frontiera a cavallo tra la Svizzera e i Paesi confinanti. A ogni tappa, i partecipanti sono stati invitati a costruire un luogo di confine immaginario o reale a loro scelta, realizzando dei video per documentare il processo. Di fatto, conclude Lacaille, “la pandemia ha confermato l’importanza delle frontiere”. 


Particolare dell’installazione ‘oræ – Experiences on the Border’ (KEYSTONE/Gaëtan Bally © Mounir Ayoub, Vanessa Lacaille, Fabrice Aragno e Pierre Szczepski).


Particolare dell’installazione ‘oræ – Experiences on the Border’ (KEYSTONE/Gaëtan Bally © Mounir Ayoub, Vanessa Lacaille, Fabrice Aragno e Pierre Szczepski).


Vista dell’installazione ‘oræ – Experiences on the Border’ (KEYSTONE/Gaëtan Bally © Mounir Ayoub, Vanessa Lacaille, Fabrice Aragno e Pierre Szczepski).

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