Parchi per bambini: a che gioco giochiamo?

ʻIl gioco sa innalzarsi a vette di bellezza e di santità che la serietà non raggiungeʼ. Per questo progettare spazi stimolanti e originali è fondamentale

Di Igor Fardin

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

Il gioco ci porta a investire importanti risorse, spazi e tempo in un’attività che, in sé, apparentemente non producono nulla di tangibile; anche perché se producessero qualcosa non si potrebbe più parlare di gioco ma di professione, come nel caso degli sportivi professionisti. Il fatto che queste risorse siano mobilizzate dalla società dimostra che il gioco possiede anche un’importanza sociale e culturale – e non solo psicologica e pedagogica – che va al di là del mondo dell’infanzia. Per dirla con le parole dello studioso Johan Huizinga: ʻIl gioco sa innalzarsi a vette di bellezza e di santità che la serietà non raggiungeʼ. Nel suo noto saggio Homo Ludens (1938) Huizinga sviluppa una tesi secondo la quale la capacità umana che ha permesso di porre le radici della cultura va cercata nel gioco, nell’attitudine giocosa e pone in stretta relazione il gioco con le più importanti espressioni culturali. Si può forse negare che la poesia, le arti plastiche o più in generale la cultura abbiano qualche legame con il gioco? 


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E oggi che facciamo?

Visto sotto questa luce il gioco, come fenomeno culturale e sociale, assume grande importanza e può forse aiutarci a pensare il nostro presente, a capire come siamo messi e dove stiamo andando. Oggi tutto, o quasi, sembra essere rivestito della colorata e gioiosa glassa del gioco: diete e programmi di fitness pensati come un gioco a punti, giochi sui social media, mappe e navigatori (per esempio, Waze) ecc. Persino il lavoro sembra richiamarsi al mondo del gioco e ai suoi corollari (emblematico il caso della catena di fast food Subway, che ha forgiato la qualifica di sandwich artist). Se quello che dice Huizinga è ancora vero, nella nostra società vette di bellezza e di santità dovrebbero essere ovunque.
Nei giochi che Facebook mi propone per acquisire i miei dati, però, non mi sembra di trovare vette di bellezza e di santità. Mi sento piuttosto riecheggiare nella testa una frase che il filosofo Giorgio Agamben ha scritto nel 2005: “Il gioco come organo della profanazione è ovunque
in decadenza”. Quando Agamben lo scriveva, in testa aveva delle categorie precise che sarebbe lungo spiegare qui, ma la frase resta evocativa – il gioco, o almeno una certa accezione di esso, è in decadenza. In effetti, pensandoci, il termine gioco sembra adattarsi male alle attività che ho descritto sopra. 

Per gioco o sul serio?

Queste attività non sembrano nemmeno entrare nella definizione che Huizinga ha dato di gioco: ʻGioco è unʼazione o unʼoccupazione volontaria compiuta entro certi limiti definiti di tempo e spazio, secondo una regola volontariamente assunta che tuttavia impegna in maniera assoluta e che non ha un fine oltre se stessa, accompagnata da un senso di distensione e gioia della coscienza di “essere diversi” dalla vita ordinariaʼ.
Il gioco quindi non ha un fine oltre a se stesso ed è un’attività separata: ecco che gran parte della giocosità che ci circonda non rientra in questa definizione. Roger Caillois, un altro importante studioso del gioco, ha aggiunto la qualifica di “non produttivo”, senza però mettere in discussione la necessità della separazione tra gioco e serio. Huizinga si è anche preoccupato di dare un nome alle attività che si rivestono di gioco pur essendo serie: le ha chiamate puerili.
Bisogna dire che la separazione tra gioco e serio immaginata da Huizinga negli anni Trenta è difficilmente immaginabile oggi e che il gioco, come lo stesso Huizinga ha ammesso, non è forse mai stato così nettamente separato dal serio. La separazione può anche essere rotta, come avevano creduto di poter fare alcuni pensatori utopici degli anni Sessanta e Settanta, per cercare di trasformare la vita in gioco, di rivoluzionare la vita. Ideali che sono assenti dalla mescolanza di serio e gioco con cui siamo confrontati oggi. In questo contesto è importante dare al gioco, quello vero, gli spazi e i tempi che il suo valore culturale e sociale merita, senza lasciarsi ingannare dalla puerilità che ci circonda. 


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Il parco giochi

Dove cercare appigli per trovare il gioco vero, i suoi tempi e i suoi spazi? Potrebbe sembrare paradossale, ma perché non guardare al parco giochi con lo sguardo dell’adulto che è stato bambino? Non ai grandi parchi divertimenti che sembrano tendere verso il puerile, ma ai parchi giochi pubblici, così familiari eppure così sfuggenti; fluttuanti tra architettura, scultura e paesaggio. In certi casi questi spazi, protetti dal loro ruolo di spazio per bambini, sembrano quasi farsi monumenti al gioco che si oppongono alla puerilità di diete e navigatori. 
I parchi giochi sono però anche estremamente diversi tra loro a seconda del periodo, della posizione e delle idee di infanzia e gioco che li hanno guidati. Per esempio, c’è una grandissima differenza tra i parchi disegnati da Isamu Noguchi, le cui vette di bellezza sono anche scultoree, e i parchi giochi costruiti da moduli prefabbricati ordinati da un catalogo. Per conoscere meglio questi spazi ho parlato con Gabriela Burkhalter, urbanista e già curatrice della mostra The Playground Project (Kunsthalle Zürich, 2016).


Francia, 1968 – Uno scatto dalla mostra “The Playground Project”, Zurigo, 2016

Quali sono le origini dei parchi giochi moderni?
“Il parco giochi nasce con la città industriale. Si sviluppa principalmente negli Stati Uniti, ma anche in grandi città europee come Londra e Berlino intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento. È in questo periodo che nascono le prime associazioni private interessate a creare spazi specificamente dedicati ai bambini, a toglierli dalla strada. L’intenzione era dare ai bambini uno spazio protetto in cui tenerli occupati e allo stesso tempo fare in modo che non disturbassero la vita degli adulti. Verso gli inizi del Novecento a queste associazioni private si è poi sostituita l’amministrazione pubblica”.

È invece negli anni Trenta che si sviluppa un cambiamento nella concezione e nel design di questi spazi.
“Sì, è un cambiamento strettamente legato a nuovi modi di concepire le città, ma anche a nuovi modi di concepire l’infanzia, il gioco e il suo ruolo nel formare l’adulto di domani. In questo nuovo contesto nascono dei parchi che danno molta più importanza al valore creativo del gioco. Lo scopo non è più tenere il bambino occupato, ma dargli la possibilità di fare qualcosa di significativo e creativo. Un esempio sono gli Adventure playground inglesi, in cui erano i bambini stessi, giocando con l’aiuto di supervisori, a costruire il loro spazio di gioco”.

Questa nuova idea di parco giochi troverà modo di svilupparsi nel secondo dopoguerra. In questo periodo nascono anche i parchi Robinson Crusoe, una specificità tutta svizzera. Cosa li caratterizza?
“Questi parchi sono il parente svizzero degli Adventure Playground inglesi. Come questi, sono la declinazione svizzera dell’idea di lasciare ai bambini una certa libertà creativa, idea che aveva preso forma per la prima volta a Copenaghen con Skrammellegeplads, parco giochi realizzato da Carl Theodor Sørensen. I parchi Robinson Crusoe si distinguono però dai loro vicini per ordine e organizzazione: mentre il parco di Sørensen e gli Adventure Playground erano caotici, anarchici e invitavano i bambini a costruire una nuova società, i parchi Robinson Crusoe li invitavano a giocare a fare gli adulti, a riprodurre i ruoli sociali in vigore, anche se in uno spazio idilliaco e protetto”.

Ci avviciniamo così agli anni Sessanta, un periodo di grandi cambiamenti sociali. Che influenza hanno avuto sugli spazi di gioco e sui parchi giochi in particolare?
“In quel periodo il gioco ha assunto il ruolo di attività liberatrice, non solo per i bambini ma anche per gli adulti. Il movimento del ’68 ha rappresentato una ventata critica che ha portato i cittadini a mettere in discussione il loro ruolo all’interno della società, a reclamare un ruolo più attivo, più indipendente. Questa volontà di essere attivi e autonomi ha portato alla creazione di spazi di gioco in cui anche i bambini potessero esserlo. Nella Svizzera degli anni Settanta, per esempio, la seconda generazione di parchi Robinson Crusoe è stata organizzata da gruppi di genitori e cittadini, seguendo modelli tedeschi e inglesi. Questi spazi mettevano al centro autogestione e autonomia, anche nei ruoli di genere, andando contro le convenzioni sociali del periodo”. 

Il fermento di idee intorno al gioco e ai suoi spazi sembra arrestarsi sul finire degli anni Settanta e si assiste a una banale standardizzazione. Che cosa succede in questo periodo?
“Credo che la fine dell’interesse verso i parchi giochi pubblici sia dovuta a un cambiamento della società; un consumismo sempre più marcato ha reso maggiormente attrattivo il consumo di beni a scapito dell’esperienza. In questo nuovo contesto i parchi giochi hanno cessato di essere ‘interessanti’. Una tesi che mi sembra avvalorata dal fatto che in Paesi satelliti dell’URSS, come la Germania Est, il gioco nello spazio pubblico organizzato da cittadini sia rimasto presente in modo più importante che a Ovest fino al crollo del 1989”.

Siamo così arrivati al periodo contemporaneo, come considera la situazione oggi?
“La presenza di parchi giochi senza un’idea è innegabile, ma sempre più studiosi sembrano riconoscere l’importanza del gioco, non come strumento di apprendimento ma in quanto attività fine a se stessa e questo si riflette anche nel design e nell’architettura. Si stanno sviluppando progetti interessanti che stimolano un gioco libero e creativo come il progetto realizzato ad Arogno dagli studenti di architettura di Mendrisio. Ci sono poi altri progetti che mirano a ‘decongestionare i parchi giochi’ , a fare in modo che il gioco si estenda al di fuori di essi, per esempio chiudendo temporaneamente delle strade e riservandole al gioco. Credo che occuparsi di spazi di gioco oggi sia molto importante. Viviamo in città sempre più congestionate ed è essenziale che il gioco trovi il suo spazio al loro interno, un’importanza sottolineata anche dalle difficoltà riscontrate da chi ha dovuto privarsi di questi spazi durante la pandemia che stiamo vivendo”.

Area di gioco in via Torricelli (Lugano)
Parte del progetto di case popolari disegnato dall’architetto Dolf Schnebli nei primi anni Sessanta, questo spazio stimola il gioco attraverso elementi in cemento che permettono un gioco libero da regole predefinite. Non ci sono dei veri e propri giochi, ma le strutture di quest’area si prestano a diversi usi “giocosi”. Ne sono un esempio i cilindri disposti in cerchio in quella che si può pensare fosse una sabbiera. Cilindri che possono essere usati, per esempio, come Jumping stones o come tavolini. Mancanza di cura e di interesse hanno reso questo spazio meno attraente, ma ciò non gli impedisce di essere ancora in grado di parlare di gioco.


© Giovanni Dorici
Area di gioco – Via Torricelli, Lugano

Parco Robinson (Locarno)
Nato dalla mobilitazione di volontari e gruppi di genitori, il parco, attivo dal 1983, viene descritto dall’Eco di Locarno come capace di “favorire giochi creativi di costruzione e giochi d’invenzione degli spazi”. Un luogo dove, sotto la guida di un animatore, “le tessere di un puzzle diventano giganti e si tramutano, magari in pannelli di panforte da affiancare uno all’altro per creare… chissà, una casa, un teatro, una semplice capanna”. Questa vocazione del parco è ancora oggi presente nelle attività guidate dagli animatori e nell’estetica fai-da-te delle sue strutture. 


© Giovanni Dorici
Parco Robinson – Locarno

Area di gioco (Arogno)
Concepita durante un workshop organizzato dal prof. Martino Pedrozzi con alcuni studenti dell’Accademia di architettura Mendrisio nel 2020, quest’area di gioco si compone di installazioni temporanee realizzate in abete. Installazioni capaci di stimolare il gioco tramite dislivelli, separazioni e suoni (una campana azionata dal vento svetta da una torre). Non solo gioco però:  “Lo spazio è pensato anche per altri usi, come le feste campestri” , sottolinea Pedrozzi. Ma questo non intacca il suo potenziale giocoso: “Ai bambini piace, basta visitarlo per accorgersene” , conclude l’architetto.


© Giovanni Dorici
Area di gioco – Arogno

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