Lavoro. Da chi se ne va (altrove) al ‘quiet quitting’

Quelli che sul lavoro ‘tirano a campare’ ci sono sempre stati. Ma in questo caso non si tratterebbe semplicemente dell’attitudine a ‘schivare la fatica’

Di Mariella Dal Farra

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Quest’anno, il meeting del World Economic Forum di Davos dello scorso gennaio aveva un titolo suggestivo: “Cooperation in a Fragmented World” (Cooperazione in un mondo frammentato) con riferimento alle “molteplici crisi che stanno approfondendo le divisioni e segmentando il paesaggio geopolitico”. Significativamente, oltre che di energia, ambiente, inflazione e guerra, si è parlato anche di “quiet quitting”. Dico “significativamente”, perché tendo a pensare che le crisi dei macrosistemi procedano da crisi interiori, psicologiche, morali; crisi individuali che si sommano e si condensano fino a raggiungere una massa critica che le trasforma in fenomeni collettivi. Tradotta talvolta come “dimissioni silenziose”, l’espressione quiet quitting si riferisce alla tendenza – certo non nuova, ma che parrebbe essere in crescita – a svolgere sul lavoro soltanto lo stretto necessario, limitandosi cioè a fare quanto previsto dal contratto (entro le ore previste dal contratto) evitando programmaticamente straordinari, responsabilità e qualunque manifestazione di quello che una volta si sarebbe chiamato “spirito d’iniziativa”. Un’ulteriore estremizzazione del quiet quitting è invece rappresentato dal “coasting”, ovvero l’attitudine a “costeggiare” il lavoro sfiorandolo soltanto, facendo quindi il minimo indispensabile per non venire licenziati e incassare lo stipendio ogni mese.

Sai che novità… Potrebbe commentare qualcuno che non si tratta di nulla di nuovo: in fondo, quelli che sul lavoro “tirano a campare” ci sono sempre stati. Vero, ma in questo caso non si tratterebbe semplicemente dell’attitudine, più o meno congenita, a schivare la fatica. Il quiet quitting sarebbe espressione del progressivo scollamento del sistema valoriale degli individui da quello proposto (o imposto) dai contesti organizzativi: una divaricazione che polarizza il mercato del lavoro in maniera sempre più netta e apparentemente inconciliabile. Da una parte, la cosiddetta hustle culture che predica la virtù intrinseca del lavorare costantemente, alacremente, con impegno ed energia al fine di perseguire i propri obiettivi e “fare la differenza”, con tutto il corredo di retorica motivazionale al seguito (cfr. Elon Musk: “Ci sono senz’altro contesti più facili in cui lavorare [con riferimento a Tesla], ma nessuno ha mai cambiato il mondo lavorando [soltanto] quaranta ore alla settimana”). Dall’altra, un sentire sempre più diffuso, soprattutto presso le generazioni più giovani, caratterizzato dalla perdita di credibilità di un impianto esistenziale basato prevalentemente sul lavoro – visto anche gli effetti che produce a livello ambientale e di salute individuale – e la ricerca di un maggiore equilibrio rispetto a ciò che lavoro non è… oppure non dovrebbe essere (interessi, affetti, appartenenza eccetera).

Cambio di mentalità

Non a caso, il quiet quitting è stato associato al fenomeno delle “Grandi dimissioni”, di cui si è parlato in queste pagine più volte (si veda, per esempio, in Ticino7 n. 5/2022), quasi i due trend fossero manifestazioni di un unico movimento evolutivo, o involutivo, a seconda dei punti di vista… La pensa così Adam Grant, psicologo delle organizzazioni intervenuto appunto a Davos lo scorso gennaio: “Credo che in qualche modo il quiet quitting sia la naturale conseguenza delle ‘Grandi dimissioni’ […] Alla fine, dopo avere provato a cambiare lavoro, o la propria situazione, senza riuscirci, è come se alcuni lavoratori si fossero detti, visto che non posso andarmene fisicamente, mi assenterò mentalmente per un po’”. (“Quiet Quitting and the Meaning of Work” in weforum.org, 17.01.2023). Allo stesso tavolo, Thierry Delaporte, CEO di Wipro Limited, aggiunge: “Una delle ragioni per le quali le persone potrebbero essere un po’ meno ingaggiate nel proprio lavoro di quanto lo fossero prima o di quanto vorrebbero esserlo è costituita dalla difficoltà a conciliare l’attività professionale con la vita privata” (Ibidem). In altri termini, più che una disaffezione al lavoro in sé, il quiet quitting sarebbe una reazione alle giornate lavorative troppo lunghe, al tempo extra che non viene retribuito e alla richiesta, il più delle volte implicita, di una reperibilità continua.
“In molti casi, i lavoratori stanno ridefinendo cosa il lavoro significhi per loro e quanto spazio dovrebbe occupare nelle loro vite” (A. Christian, “Why ‘quiet quitting’ is nothing new”, BBC Worklife, 29.8.2022). Un esempio particolarmente eclatante di questo “cambio di mentalità” è rappresentato dalle recenti dimissioni di Jacinda Ardern dal ruolo di primo ministro della Nuova Zelanda, una scelta che ha suscitato molti commenti nell’ambito dell’attuale dibattito. La quarantaduenne ex primo ministro, che ha guidato il Paese negli ultimi cinque anni attraverso la peggiore sparatoria di massa avvenuta in Nuova Zelanda, un’eruzione vulcanica e la pandemia da Covid-19, ha affermato lo scorso 19 gennaio di non avere più “abbastanza benzina nel serbatoio” per rendere giustizia al suo lavoro: “I politici sono umani. Diamo tutto quello che possiamo, più a lungo che possiamo, e poi viene il momento di lasciare. Per me, quel momento è arrivato”. Il fatto che Ardern sia diventata madre durante il mandato ha spinto molti a interpretare la sua decisione come determinata da un burn-out da super lavoro (considerato anche il doppio ruolo), ma è sempre più difficile tracciare la linea di demarcazione fra esaurimento professionale e una più ampia ridefinizione del bilanciamento fra impegno lavorativo e vita privata.

I dolori dei ‘capi-elicottero’

Che si tratti di un cambio di sensibilità che ha consentito di parlare più apertamente di “burn-out” o di una “visione del mondo” che si sta modificando, la pandemia sembra avere funzionato come un potente catalizzatore facendo emergere tendenze che fino a poco tempo prima agivano ancora sotto soglia. Prendiamo per esempio il caso del “micromanagement”, o “micro-gestione”: un approccio manageriale che consiste nel controllare minuziosamente la produttività dei propri collaboratori attraverso continue richieste di resoconti, chiamate, mail, briefing molto dettagliati e lunghe riunioni. Analogamente al quiet quitting, neppure la micro-gestione è un fenomeno nuovo: “I capi che monitorano attentamente lo staff ci sono sempre stati. Ma l’aumento dei lavoratori che operano da remoto ha alimentato il senso d’insicurezza di molti manager, e gli esperti sostengono che la pandemia abbia dato origine a una nuova generazione di capi-elicottero” (in assonanza ai ben noti genitori-elicottero, quelli che sorvegliano costantemente i propri figli dall’alto, per così dire, delle nuove tecnologie: GPS, telefono, social eccetera; M. Tatum, “The remote ‘helicopter bosses’ who stunt worker resilience”, BBC Worklife, 1.12.2022).
Da uno studio pubblicato nel luglio del 2020 sulla Harvard Business Review (S.K. Parker et al. “Remote managers are having trust issues”, 30.7.2022) condotto su un campione di 1’200 lavoratori residenti in ventiquattro Paesi, risulta che un quinto delle persone che lavorano in smart-working sentono che i propri responsabili controllano costantemente il loro operato, mentre un terzo riporta commenti che evidenziano mancanza di fiducia nelle loro capacità lavorative. Coerentemente, lo stesso studio evidenzia come il 38% dei manager intervistati senta che il lavoro da casa sia meno produttivo di quello svolto in sede e il 40% nutre seri dubbi sulla capacità dei propri collaboratori di gestirsi autonomamente da remoto. Tuttavia, “i lavoratori in smart-working che si sentono ‘micro-gestiti’ dai loro referenti sono meno coinvolti, meno motivati e meno capaci che mai”. “[…] Nell’epoca del lavoro da remoto, [l’effetto] è amplificato perché le persone sono già fisicamente disconnesse dall’azienda e dai colleghi, e la micro-gestione non fa che aumentare questo senso di demotivazione” (M. Tatum, BBC Worklife, 1.12.2022).

Effetti della ‘grossa crisi’

Dal disinvestimento al fare il minimo necessario (quiet quitting) il passo è breve; poco più lungo quello che porta alle dimissioni vere e proprie. Insomma, “c’è grossa crisi” come direbbe Guzzanti, oppure è in atto un cambiamento del paradigma culturale; e l’esigenza che sembra emergere, in maniera trasversale, è quella di un atteggiamento più responsabile. Se il quiet quitting rappresenta una risposta funzionale a un contesto lavorativo disfunzionale, allora c’è un solo modo per uscirne: promuovendo un clima improntato al rispetto, alla fiducia e alla collaborazione reciproci, nella chiarezza di regole esplicite che prevengano abusi da una parte e scantonamenti dall’altra.

RIACCENDERE LA SCINTILLA

Anche senza raggiungere i livelli di demotivazione che possono portare a una condotta da quiet quitter, è vero che il grado d’impegno sul lavoro può talvolta subire delle deflessioni, anche quando si tratta di un’attività che abbiamo scelto e che ci interessa particolarmente. Un periodo di stanchezza, motivi di preoccupazione contingenti, la nostra stessa tendenza ad appiattirci su prassi già consolidate concorrono a farci sentire meno ingaggiati e “curiosi”. In questi casi, è possibile ricorrere a delle strategie, come suggerisce anche una ricerca condotta di recente sul tema (Chen, P. et al., “Fanning the flames of passion: A develop mindset predicts strategy-use intentions to cultivate passion” in Frontiers in Psychology, 2021). Alcune di queste sono:
– Soffermarsi sull’importanza rivestita dal proprio lavoro sul piano personale, per esempio in termini economici (mi consente di essere autonomo/a, di realizzare dei progetti), esistenziali (conferisce uno scopo a quello che faccio; mi permette di convogliare il mio potenziale), o altro.
– Soffermarsi sull’importanza rivestita dal proprio lavoro sul piano sociale, con riferimento alle implicazioni o ricadute sulla collettività (feedback ricevuti da utenti, colleghi, superiori; valori fondativi dell’azienda o dell’attività svolta).
– Imparare a fare bene qualcosa, diventare “bravi”, ampliare e migliorare le proprie competenze: svolgere un compito “a regola d’arte”, qualunque esso sia, dall’apparecchiare una tavola all’eseguire un’operazione di matematica strutturale, tende infatti a essere sperimentato come intrinsecamente soddisfacente.
– Individuare mentori, predecessori/precursori o colleghi che possano ispirarci e motivarci per rispecchiamento.
– Variare l’ambiente fisico in cui lavoriamo: ufficio, casa, postazioni di co-working, al chiuso o all’aperto… alternare gli “sfondi” ci aiuta a vedere meglio la “figura” in primo piano.

Articoli simili