“La rouso” – Un racconto di Giorgio Genetelli

“A renn ala roisgio, la rouso l’é modigo ma orouso c’a piou”. Ecco. Ma ecco cosa, che non si capisce niente! Tu capisci?

Di Giorgio Genetelli

Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del giovedì (causa festività) a laRegione.

Piove a dirotto. Nel rigagnolo accanto al frassino, tra la terra fradicia, una salamandra.
– “A renn ala roisgio, la rouso l’é modigo ma orouso c’a piou”.
Ecco.
– Ma ecco cosa, che non si capisce niente!
– Tu capisci?
– Io sì, ma gli altri no.
– Ma gli altri chi? che siamo qua solo io e te.
– Non è una buona ragione.
– Ah no?
– No, sono cose che sappiamo già.
– E allora quando tu mi racconti del gol di Maradona per la millesima volta?
– Quello è divertente. Cosa ce ne frega della rouso, che è grande così e si muove al rallentatore?
– A me frega. Guardala. Maradona e il suo gol non ci sono più, lei sì.
E prende la salamandra, la rouso nella nostra lingua morta, con due dita guantate e se la mette nel palmo mentre lei allarga le zampine senza agitarsi, non lo fanno mai quelle bestie lì, vagano nell’umidità con pazienza misteriosa e chissà dove vanno e da dove vengono. Piove a dirotto. E stiamo lì a disquisire.
Ma forse ha ragione lui. Cosa ci è rimasto in fondo? Qualche ricordo, sempre più fisso e solitario, nessun progetto e giornate svuotate. Tanto vale parlare della poca attualità rimasta, tipo la rouso o la carta da cesso che diminuisce.
– Ci sono sempre le foglie – specifica.
Non è giornata, ribatte su tutto. Posa la rouso ai piedi del frassino, lei ci guarda coi suoi occhi neri come l’universo e poi ricomincia a muoversi come se le costasse fatica darsi quella pena, ma ovviamente non è così, è solo che si prende il suo tempo, come tocca fare anche a noi fulminati dalla catastrofe.
Da quando le cose sono andate male, la sola cosa da fare è sempre e solo trovare da mangiare. Funghi, alcune reminiscenze dell’orto, frutti tardivi, qualche animaletto e nei giorni di festa quel che resta negli scheletri dei supermercati, cercando di non farsi ammazzare dagli altri affamati. Mi domando come abbia fatto a scamparla la rouso… Forse grazie ai tossici colori giallo e nero, come le orribili maglie del Lugano di quando ancora si andava a vedere l’hockey. Per il poco che mettiamo in bocca si può fare a meno della carta da cesso. D’accordo, le foglie basteranno. Se vanno bene per dormire, andranno bene anche per altri bisogni. Foglie ce ne sono.
Rientriamo in “casa”.

Le batterie tengono botta e metto su Hendrix, che direttamente dal secolo scorso ci sghitarra qualcosa di fresco. Il vino è ormai ridotto a acquetta paglierina ma fa il suo e inventiamo un canto in un inglese alla Celentano, tra uai e becaus e prisencoli, visto che il libretto dei testi è scolorito e le parole non si riconoscono più. Sono anni che non parliamo un’altra lingua, le abbiamo dimenticate tutte e quando lui ha tirato fuori quella poesiola sulla rouso le parole hanno sfregato stridule nelle mie meningi, o in quel che ne resta. Ho un libro in francese del Uoter, ma oltre la mia mente non vanno e se provo a dar loro voce escono deliranti. Strano che la poesiola della rouso sia sortita bene, invece. Forse c’è da tornare ai suoni primitivi, altro che “genio genio genio ta ta ta ta ta gooool!” , che poi è spagnolo e viene come viene e non abbiamo nemmeno la palla, o qualcosa che le somigli. L’ultima volta ho calciato un barattolo di pelati.
Abbiamo acceso il fuoco, e guardarlo da presso, mentre fuori piove nelle ombre della sera, è riposante. Tra le bizzarrie delle fiamme, ci si perde ognuno a modo proprio, nel personale silenzio dell’ozio. Ho lasciato andare i pensieri; sono partito da quanto sia bello avere legna a profusione, non solo foglie, poi ho attraversato il Mediterraneo con le sue figure omeriche, ho camminato a piedi nudi nelle pianure americane, mi sono arrampicato su vette, ho ripescato volti dai lineamenti opachi, per scorgere infine tra il fuoco, arancione e nero, l’immagine della rouso vicino al frassino. Non mi preoccupo, non sono ancora pazzo: è che secondo gli alchimisti, le salamandre non muoiono se gettate tra le fiamme, anzi ne traggono forza e riescono addirittura a spegnerle.
– Non solo. Le salamandre sono simbolo di chiarezza di pensiero e di cambiamento.
– Da quando sei diventato enciclopedico?
– Sono cose da sapere se giri il mondo.
Mi dà fastidio che mi legga nel pensiero.
– Non è che giriamo molto io e te…
– Potrebbe capitare.
Andiamo avanti a battere e ribattere e poi, sfibrati dalle reciproche opposizioni, facciamo una mano a Napoli prima di andare a letto, nel mucchio di foglie, cioè.
Nel dormiveglia penso al mondo sconvolto in cui viviamo. Altro che cambiamento: la terra si è rivoltata e si è scrollata di dosso, come un grande bisonte, le mosche e i parassiti. In pochi le siamo rimasti attaccati. Ricominciare da capo… Da dove? Con chi…
Il mattino arriva in un battito, come dopo un’anestesia. Mi alzo ottuso e depresso. Il fuoco è spento. Mentre porto dentro un po’ di stecchi i soliti quesiti sono già all’opera: come andare avanti nella storia dell’umanità? Ci sarà futuro per quel che resta del genere umano? Quali pensieri ci uniranno?
Cose così, minime.
Lui sta versando del vino. Sorride.
– Non star lì a diventar matto. Guarda – mi fa indicando il focolare.
Guardo: dalla cenere avanza, sgargiante e cauta, coi suoi occhi neri, la rouso.
Fuori c’è un sole bellissimo.

Articoli simili