Il Metodo Mathieu: essere ragazzi al “Tempo delle mele”

Ovvero, quando i sogni diventavano la vera quotidianità. Perché essere giovani (mica fingere di esserlo) è la cosa più bella del mondo, si sa…

Di Beppe Donadio

Pubblichiamo un articolo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Artisticamente parlando, non saranno gli adolescenti-poeti degli anni Sessanta ne ‘L’attimo fuggente’ e nemmeno i teenager-stragisti dei Duemila in ‘Elephant’. Ma il file che lancio Sophie Marceau – nelle sale dei cinema francesi 40 anni fa,e l’anno seguente anche i quelle di lingua italiana – è un film onesto sui giovanissimi dei favolosi anni Ottanta (che poi gli anni sono favolosi tutti. Dipende solo da che età hai).

Ricordo Viviana per via del rapporto inversamente proporzionale tra la taglia di reggiseno e l’anno di studi, una terza in prima superiore. La ricordo anche perché, senza che io ne comprendessi il motivo, sosteneva via terzi di essersi innamorata di me in modo totale e incondizionato. Aveva anche dichiarato – sempre via terzi, della sua terza – che era impossibile che io fossi l’unico a non esserne attratto, anticipando così la tendenza di alcune donne non ricambiate a trarre conclusioni affrettate (non mi vuole quindi è gay). Mentre nel corridoio Viviana imprecava contro l’indifferenza ai seni gonfi, io gravitavo tra l’anticamera e la sala da pranzo di una festa di compleanno con tanta italodance e poco ballo lento. Per chi non l’avesse mai sperimentato, dicevasi ballo lento lo stringersi l’un l’altra, le mani di lei intorno al collo di lui, quelle di lui intorno alla vita di lei – e nelle peggiori discoteche francesi sull’Atlantico, le mani di lui nelle tasche di lei – sulle note di Hard to say I’m sorry dei Chicago. 

Alle feste di compleanno

Mentre Viviana simulava casuali occasioni di struscio frontale, io seguivo con lo sguardo Amelia, misteriosa come Edgar Allan Poe, piatta come Miguel Bosé. Complice l’oscurità, alle feste di compleanno si correva sempre il rischio di idealizzare, per poi scoprire con la luce del giorno dopo che di Vic Berreton, la protagonista de Il tempo delle mele, ce n’era una soltanto. E cioè Sophie Marceau, una specie di Chiara Ferragni di metà anni Ottanta [Digressione n.1: se un ragazzino del 1980 ha visto Il tempo delle mele da solo, cova poi un diritto di riscatto da esigere al primo presentarsi di qualcuno che somigli anche vagamente a Vic Berreton]. Per motivi che attingono alla sfera della psicologia amorosa, una forza impercettibile – forse l’alone di mistero, forse l’incedere regale, forse l’aria da stronza (la terza che ho detto) – decise che Amelia sarebbe stata la mia Vic Berreton. Perché – a completamento della digressione n.1 – uno che nel 1980 ha visto Il tempo delle mele da solo, a quel diritto di risarcimento per danni morali, a quel destino travestito da brunetta, davvero non può resistere [Fine della digressione n.1].


Per averne avuto uno così, dovete aver superato di ce sto i 40, minimo minimo…

Musica per sognare

Se negli odierni licei può capitare d’imbattersi in ragazzini armati fino ai denti, quel tardo pomeriggio del 1984 il mio Walkman Sony stretto in vita era un’arma caricata a sentimento. Cuffia stereofonica al collo, seconda cuffia molto più costosamente stereofonica poggiata a cavallo dell’apparecchio come una Colt, scorta di pilette 1,5 V nella tasca posteriore dei jeans, tra luci psichedeliche e ascelle purificate (vedi a destra) la festa latitava; sull’unico divano disponibile, due perfetti sconosciuti tenuti insieme per la lingua si scambiavano microbi buoni sulle note di una hit di un qualche eroe della dance italiana dal nome inglese [Digressione n.2: negli anni Ottanta, gran parte degli eroi della dance italiana erano anglofoni nelle generalità, ma di norma nativi della Bassa Padana. A parte il romano Ryan Paris (Fabio Roscioli), quello di Dolce vita, canzone che tanto piaceva ad Annie Lennox]. Fu intorno all’ora di cena che presi in ostaggio la mia Vic, forte del fatto che nel ballo lento non serve sfoggiare particolari abilità: basta ondeggiare a destra e a sinistra, possibilmente a tempo, e tenere le mani a posto. Fu a quell’ora, complice il buio, che le difese di Amelia s’abbassarono e così forse anche la mia vista, motivo per il quale solo 24 ore dopo ebbi una diversa percezione del mio coinvolgimento per lei. L’unica sfortuna di Amelia, in verità, stava nel dover combattere in partenza contro il fantasma di un personaggio che, più di lei, aveva l’unico vantaggio di stare nello schermo o sulle copertine dei giornali; anche in cima a un cumulo di mele verdi, se si considera il n.6 di Sorrisi e Canzoni TV del febbraio 1982 contenente l’approfondimento “Parlano gli adolescenti italiani: com’è il nostro tempo delle mele” (com’è il nostro tempo delle mele? Cazzo, io l’ho visto da solo, ecco com’è).

Senti questa…

Innamorato più dell’amore che di Amelia, in quel premeditato pomeriggio del 1984 stavo per mettere in pratica gli insegnamenti di Mathieu, il ragazzetto che alla fine de Il tempo delle mele – film che visto da solo ti fa sentire un reietto, ma questo l’abbiamo già detto poneva con invidiabile tempismo una seconda cuffietta sulle orecchie di Vic isolandola dal mondo esterno e regalandole le note innamoratrici di Reality, tema originale cantato da Richard Sanderson che oggi vive “vicino a Parigi con la moglie e le tre figlie Mélody, Ophélia e Angelina” (grazie Enciclopedia digitale). Essendo però Reality, vecchia di quattro anni, il mio Walkman avrebbe fatto innamorare Amelia tramite contenuti intellettualmente più elevati che andavano sotto il titolo di La Donna Cannone, una cosa così ben cantata, suonata e ispirata da sollevare da terra per voli pindarici lunghi fino a 4 minuti e 43 secondi dopo i quali sarebbe seguita Victims di Boy George, il colpo definitivo. Insomma, poggiai la mia seconda cuffietta sulle orecchie della mia Vic: ‘Play’ [intro di piano; vai Francesco…] “Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno. Giuro che lo farò…”.


“… Dreams are my Reality…”. ve la ricordate, no?

L’effetto De Gregori

Esiste un problema di fondo nel Metodo Mathieu dal quale il film Il tempo delle mele si guarda bene dal mettere in guardia: se in sala qualcuno ha messo i Van Halen a palla, le cuffiette che mandano F. De Gregori possono fare davvero poco. Quello che si può fare è dare un mezzo giro in avanti alla manopola del volume del Walkman sino alla tacca 8, sperando che il primo “E con le mani amore, con le mani ti prenderò…” riesca a isolare voi e la vostra Vic da tutto e da tutti. Zio Eddie compreso, pace all’anima sua. Volume 8. Alle mie orecchie, nessuna distorsione, suono cristallino, una spanna sopra gli altri giocattoli musicali spacciati per hi-fi. Fu in questo stato iniziale d’idillio da Walkman col doppio ingresso che a ridosso del secondo ritornello de La Donna Cannone di F. De Gregori la mia Vic iniziò a tremare. Era amore? Doveva esserlo: il mio alito era respirabile, le mie mani erano nel posto giusto, incedevamo all’incedere di F. De Gregori cercando di non fare caso al dannato controtempo dell’assolo di Jump, quella sensazione di bolero che Samuele Bersani un giorno avrebbe riassunto in “slega il movimento”. Tutto andava come Mathieu aveva insegnato, io credevo. E invece. Alla fine del secondo ritornello la mia Vic mi guardò negli occhi con un’espressione di sgomento misto a pietà che io interpretai come “baciami, F. De Gregori mi fa impazzire” e invece era “Cristo! Sto diventando sorda!”.


I protagonisti della pellicola diretta da Claude Pinoteau, uscita nei cinema francesi il 17 dicembre 1980: Sophie Marceau è Vicʼ, Alexandre Sterling è Mathieu (il suo grande primo amore).

Questione di volumi

Per capirci. Chi avesse intorno ai sedici anni e invece dei cannabinoidi volesse sperimentare il ballo lento, e gli venisse in mente di applicare il Metodo Mathieu, sappia che le cuffie per ascoltare la musica non sono tutte uguali. Si chiama ‘impedenza’ quella cosa per la quale se il volume del tuo apparecchio è 8 non è detto che lo sia per entrambe le cuffie. Per una delle due potrebbe anche essere 16, o 24. Per amore, soltanto per amore, avevo lasciato alla mia Vic la mia cuffia migliore, esponendola al rischio di danni permanenti al timpano. ‘Impedenza’, quella che spiegata con le cognizioni di fisica in possesso di un sedicenne dell’epoca poteva definirsi al massimo la peculiarità di un impedito (impedito sì, ma senza colpa). Forse oggi la tecnologia ha risolto il problema; forse, amarsi wireless è un attimo. Tornando al tardo pomeriggio del 1984. Col ripopolarsi del centro-salotto sulle prime note di Mad Desire di Den Harrow (Stefano Zandri, originario di Nova Milanese), io e Amelia riparammo in cucina, dove sopra un frigorifero di marca troneggiava un radioregistratore giapponese a cassette altamente fedele. Una volta soli, una volta per tutte, chiusi la porta e misi F. De Gregori al suo posto, facendo scorrere indietro il nastro sino a trovare un ritornello, non importava se fosse il primo, il secondo, oppure l’ultimo. Finalmente – senza cuffie e a un volume umanamente sopportabile – La Donna Cannone, quell’enorme mistero, volò.

NdR: per molte altre chicche, note e curiosità sul Tempo delle mele (1, 2, 3 ecc.) procuratevi la versione cartacea di Ticino7 apparso sabato 7 novembre (e conservatela a futura memoria, non si sa mai come andrà a finire, sapete…)

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