United Roads of America. In Alaska, dove finisce il viaggio

L’ultimo contributo di Emiliano Bos dalle vene dell’America, prima del suo rientro in Europa. Cronache dai confini del mondo.

Di Emiliano Bos

Prima di rientrare in Europa Emiliano Bos ci regala l’ultima puntata della sua grandiosa rubrica dalle vene dell’America. Trovate il contributo anche su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

È una danza delle fauci: le bocche fameliche delle balene Humpback (“dalla schiena gobba”) si spalancano, i pachidermi dell’Oceano guizzano all’insù ingollando pesci e plancton per poi ripiombare sotto la coperta increspata delle onde mostrando le gigantesche code a forma di V. Spariscono spruzzando un soffio che sembra un geyser con la salsedine. “In 25 anni l’avevo visto soltanto un paio di volte, nelle ultime due stagioni. Le balene salgono fin qui in Alaska perché fa troppo caldo”, commenta dalla plancia il capitano Tim Pichotta, origini norvegesi ma forse vichingo con radici sicule, un tipo asciutto tra gli spruzzi, lupo di mare taciturno quando lascia il microfono con cui ha coccolato i turisti sulla “Kenai Explorer”. Ferma i motori per attendere il passaggio magico e delicato di una mamma col cucciolo di orca killer, mammifero che divora tutto tranne la propria specie (a volte pure quella).

Il mare è una tavolozza dalle tinte artiche, vira dal verde smeraldo al blu petrolio – in una baia violentata dal devastante sversamento di greggio della Exxon nel 1989. 11 milioni di galloni vennero vomitati tra i fiordi del “Kenai Fjord National Park”, lungo una costa frastagliata dove navigando riesco a scorgere a occhio nudo 7 diverse “bald eagle”, aquile fiere, orgogliose – simbolo di quest’America di frontiera, appollaiate come torri saracene lungo la costa del Salento, a vigilare il loro habitat ancestrale.

Poco più in là, sotto una coperta di nuvole e mare che si chiude con la cerniera dell’orizzonte, ecco l’Aialik, uno dei monumentali ghiacciai dell’Alaska che immerge la sua lingua di seracchi tra le onde. Un blocco si stacca all’improvviso, un rumore sordo, quasi un gargarismo della natura. Su un piccolo iceberg una lontra marina e una foca grigia giocano rotolandosi. Da quando è caduto come un fiocco di neve, quel ghiaccio ha impiegato 200 anni a trasformarsi in cristallo galleggiante. Le forme primordiali della natura sembrano allineate qui, nello Stato più primitivo degli USA, il 49° ammesso nell’Unione, dove si disputa persino il derby dei salmoni (10mila dollari in premio per il più grande).

Salmoni e camerieri

Non fanno a gara ma quasi, le decine di pescatori allineati all’alba sulla foce di un torrente sulla spiaggia di Seward. Il salmone è un volano del turismo. Ed è pure il “re” incontrastato da queste parti, come il “King Salmon” che sta sfilettando un pescatore appena rientrato al Miller’s Landing. Non tutti i posti di lavoro sono uguali. Il suo è un balcone affacciato sul fiordo e sull’abbraccio di cime innevate che cinge la “Baia della Resurrezione”. La chiamò così a fine Settecento il capitano russo Alexander Baranov, dopo avervi trovato rifugio nel mezzo di una tempesta che finì il giorno di Pasqua. Ma in città si fatica a trovare un tavolo per assaggiare il salmone. C’è carenza di camerieri. Nel periodo post-Covid mancano lavoratori ovunque negli Stati Uniti. Qui sono solo stagionali. Non si trovano nemmeno quelli. “Non sono arrivati, siamo in pochi e non riusciamo a garantire il servizio”, mi spiega Everett, giovanotto del Maryland venuto qui come ogni anno al “Sea Salt”, il ristorante in fondo alla Fourth Avenue di Seward. Di solito, aggiunge, arrivano dall’Est Europa e dall’Asia. Ma anche dai “lower 48”, gli Stati più a Sud di questo grande Nord: cioè tutti gli USA, tranne le Hawaii. Davanti al locale incrocio Dustin, un vigile del fuoco di Tucson cresciuto tra i cactus dell’Arizona. Mi racconta del suo grande desiderio di visitare l’Alaska, spinto dalla curiosità per la “Grande Terra”: questo significa il nome Alyeska usato dai nativi Aleut per chiamare la propaggine che collega l’America alla Russia, con due isole a meno di 5 chilometri che separano i mondi contrapposti nello Stretto di Bering.

La piccola Russia

Non l’oro dello Yukon, né il petrolio dell’Artico ma il pelo. Quello delle lontre marine attrasse i russi verso Est nella seconda metà del Settecento. In mezzo secolo sterminarono non solo milioni di furetti, ma anche parte dei nativi. Seward porta il nome del segretario di Stato ai tempi di Abraham Lincoln, che strappò l’Alaska alla Russia pagandola 2 centesimi di dollaro per acro di terra nel 1867. Ora il nuovo Klondike sono le terre rare seppellite qui sotto l’Artico, che resta comunque un gradito serbatoio di greggio per gli americani. La Russia ha lasciato tracce visibili. Come le guglie a cipolla della chiesa ortodossa di Ninilchik, sulla costa orientale della penisola di Kenai. Nell’adiacente cimitero sulla collina a strapiombo sul mare i cognomi non lasciano dubbi: qui giace il signor “Kvasnikoff, papà, pescatore, amico”. Qui è venuta ad abitare per ora Deborah Morel, una signora americana col nonno parigino e la figlia di stanza in Corea del Sud arruolata con la Marina. Ha lavorato a lungo come investigatrice per crimini sessuali tra i nativi a St. Mary, nell’entroterra dell’Alaska. Adesso ha affittato un piccolo prefabbricato in questo villaggio a maggioranza russa. “La comunità ti accoglie ma capisci di non farne parte”, dice. Da queste parti gli anziani non parlano tuttora inglese. Me lo conferma la signora Marfa, un’addetta di laboratorio chiamata spesso come traduttrice dal russo all’inglese per le emergenze nel piccolo ospedale. La incontro a Homer – “la capitale mondiale dell’halibut”, come si legge all’ingresso della cittadina, l’unico pesce che in Alaska contende il trono al salmone. Marfa recupera gli scarti dei pescatori – locali e turisti: teste, code, interiora. “Sono ottimi per la zuppa”, dice con un sorriso.

Grizzly e Cessna

Al bivio della Statale 1 – tra Seward e Homer – avevo incrociato Mary e John, ex insegnante lei, fotografo lui. Felicissimi di aver vinto un permesso speciale per fotografare gli orsi in zone protette. L’altro metodo per avvicinare i Grizzly è affidarsi ad Alec, pilota e guida di una piccola compagnia locale. 27 anni, nativo del Colorado, riccioli rossastri e camicia stelle-e-strisce per la ricorrenza del 4 luglio, fa planare con tocco esperto il nostro piccolo Cessna 206 sulla spiaggia della Hallo Bay. È il confine del Parco Nazionale del Katmai. Dietro un dosso erboso accanto a una palude, una mamma plantigrada coccola i suoi due cuccioli. La distanza – ravvicinata ma rispettosa del loro spazio e tale da non creare disturbo – regala un impagabile spettacolo: i piccoli Grizzly si azzuffano allegramente, sembrano peluche morbidi. Invece appartengono alla grande famiglia degli animali che tentano di adattarsi ai cambiamenti climatici in questa parte dell’America. L’Artico si sta surriscaldando al doppio della velocità rispetto al resto del pianeta. Per capirlo ancora meglio serve un’altra ora e mezza di aereo – stavolta di linea – da Anchorage verso l’estremo Nord degli Stati Uniti, 500 chilometri più in su del Circolo Polare Artico.

Last frontier, ultima tappa

È surreale l’atterraggio a Utqiagvik, fino al 2016 chiamata Barrow ma ribattezzata col nome Inuit. Dapprima il groviera della tundra crivellata di laghi e laghetti. Poi una crosta di lastroni spezzati che formano piccoli iceberg fino alla battigia. È il ghiaccio invernale inizialmente spinto via dal vento dell’Est, ma sospinto di nuovo verso terra da quello dell’Ovest. “Non succedeva da oltre 20 anni di avere tutto questo ghiaccio a luglio”, mi dice Qaiyaan Harcharek, 39 anni. È un arpioniere di balene della comunità Iñupiat, quelli che noi chiamiamo Eschimesi. Sono il 60% dei cinquemila abitanti di questa cittadina senza alberi né strade asfaltate, la più a nord di tutti gli USA. Il cambiamento climatico “c’è ed è reale, ma noi siamo pronti ad adattarci. Lo abbiamo sempre fatto”, aggiunge Qaiyaan. Il fuoristrada slitta sulla sabbia. Una manciata di chilometri ed ecco Point Barrow, appendice di terra tra i ghiacci che separa due mari: Chukchi e Beaufort. Diritto avanti a noi il Polo Nord.

Qui finiscono le strade d’America. Qui finisce il viaggio.

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