Per capire il Kosovo

Il paese che esiste per alcuni, ma non per altri. Dove i ponti diventano muri e la storia non si dimentica

Di Roberto Scarcella

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

C’è un luogo che sfida ogni logica, dove i ponti non uniscono ma dividono: si chiama Kosovo. Riconosciuto da 116 nazioni dell’Onu, per altre 80 non esiste: sarebbe solo una provincia ribelle della Serbia. Sulle mappe ha confini tratteggiati e non definiti, quasi a certificarne la provvisorietà. 

Fa parte della Grande Albania sognata da Tirana, che non esiste. E della Grande Serbia immaginata negli anni Novanta da Slobodan Milošević, che non è mai esistita. Ma è anche un pezzo di Jugoslavia, un Paese rimpianto da molti, presente, presentissimo nella memoria, e che però non c’è più. Un luogo dell’anima, si tende a dire in questi casi, non fosse che qui, più di tutto, perfino del nome, dello status giuridico e delle anime, conta la proprietà della terra. Uno Stato che è formalmente indipendente da più di dieci anni, ma che gli stessi kosovari chiamano ironicamente Unmikstan, dal nome della missione Onu (Unmik) iniziata nel 1999 – dopo oltre tre anni di guerra – e mai finita. Come dire, comandano gli altri. Da molto lontano, lontanissimo. Male, ma l’alternativa era Belgrado, e qui non era un’alternativa.


Kosovska Mitrovica – © R. Scarcella

Illusioni ottiche

A Pristina, come a Prizren o a Gjakova, la bandiera del Kosovo sventola sempre assieme a quella europea, statunitense e albanese. Il Kosovo è – nei fatti – dei kosovari albanesi, che lo abitano per la quasi totalità dalla fine della guerra di fine anni Novanta. Ma è America, è Europa, è Albania, è Serbia, è Jugoslavia. È niente di tutto questo: un Paese in costruzione, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore – e purtroppo realistica – una striscia di terra di nessuno grande quanto l’Abruzzo e al cui cospetto l’Abruzzo sembra Manhattan. Il Kosovo, come certe illusioni ottiche, dipende molto da che parte lo si guarda, con quali occhi e quali pregiudizi. Sembra uno di quei quadri di Escher pieni di porte, scale e gente che non si capisce se entra, esce, sale o scende; in cui l’inizio e la fine, l’alto e il basso coincidono, si mescolano e si confondono. Come la verità, anzi le verità: quella albanese, quella serba. E tutte le altre.
Il Kosovo oggi guarda all’Europa perché quello sarebbe l’approdo naturale dell’ex Jugoslavia, e perché con il 52,4% di disoccupazione giovanile c’è poco altro a cui guardare. Eppure nella capitale, Pristina, l’eroe è ancora Bill Clinton, cui sono dedicati il viale principale della città e una statua. Poco distante, sul tetto dell’Hotel Victory, c’è una riproduzione della Statua della Libertà, un trionfo del kitsch, un modo bizzarro di dire grazie all’America, ma soprattutto un malinconico “vorrei, ma non posso”.


Pristina – © R. Scarcella

ʻDespacitoʼ

Più della capitale Pristina, cantiere a cielo aperto con i caffè e i viali pieni di gente che si mescolano a militari stranieri e auto diplomatiche, per capire a che punto è il Kosovo bisogna dirigersi poco più a nord, a Mitrovica, dove si arriva dopo un’ora abbondante su un bus rattoppato e rumoroso che sembra arrivato dal passato, un po’ come tutto qui nei Balcani, dove non sono solo le colpe dei padri a ricadere sulle teste e sulla disoccupazione dei figli, ma persino battaglie combattute più di sei secoli fa, come quella di Kosovo Polje, piccolo centro alle porte di Pristina. Anno Domini 1389. Serbi contro ottomani: una sconfitta che ha contribuito al mito della Grande Serbia e che aleggia in tutti i Balcani come se fosse finita ieri. Come se non fosse finita affatto. Mitrovica è la città del ponte che, sfidando ogni logica, è diventato un muro. Da una parte – quella da dove arriva il bus da Pristina e si paga in euro – c’è l’imponente moschea Bayrampasa Isa Bey con sullo sfondo minareti a perdita d’occhio. E bandiere albanesi, magliette della nazionale del Kosovo, insegne in caratteri latini, foto dell’ex presidente Rugova, caffè turco e musica orientaleggiante intervallata da Despacito. Dall’altra – dove arriva il bus da Belgrado e si paga in dinari – la nuova grande chiesa di San Demetrio con sullo sfondo un’altra chiesa ortodossa. E bandiere serbe, magliette della Stella Rossa Belgrado, insegne in cirillico, foto del presidente russo Putin, caffè espresso (o “serbo” , se proprio si vuole, che poi è quello turco con un altro nome) e musica balcanica intervallata da Despacito. Già, una hit portoricana pare davvero l’unico punto in comune tra due mondi separati da questo piccolo ponte sull’Ibar che si attraversa a piedi in meno di un minuto, se si vuole. Oppure mai e poi mai. Un passaggio di pochi metri che per serbi e kosovari sembra infinito, lungo quanto gli anni di incomprensioni e risentimenti. Una linea di confine dove il confine non c’è. Quello con la Serbia, e che Belgrado ignora, si trova infatti trenta chilometri più a nord.


Pristina – © R. Scarcella

Sbagliare strada

Da una parte del ponte c’è una camionetta dei carabinieri italiani messa di traverso, dall’altra solidi new jersey di cemento e una sorta di trincea di lastre di alluminio alta più di due metri. Oltre quella barriera, alzando lo sguardo, è un tripudio di bandiere serbe esposte sui balconi e nei bar. In strada, vecchie Yugo e Zastava, ma anche Fiat e Volkswagen fuori produzione. Un’automobile su tre circola senza targa e la polizia non fa una piega. Sui muri, accompagnati dall’immancabile bandiera serba, ci sono immagini di combattenti dell’ultima guerra accompagnate talvolta dalla scritta “Il Kosovo è Serbia” talvolta da mappe disegnate a mano libera in cui i due Paesi non sono divisi dalla linea, più o meno tratteggiata, che si trova nelle mappe stampate in Occidente.
In poco più di un’ora le persone che attraversano il ponte si contano al massimo sulle dita di due mani. I più fanno qualche metro, si siedono su una delle panchine a metà del ponte e poi tornano dalla loro parte. Perché qui non ci si incontra, ma ci si scontra, da oltre vent’anni. Sembra impossibile uscirne, come dimostra l’atteggiamento disincantato del cameriere del Bar Edi, uno dei più vicini al ponte dal lato albanese. “Sei italiano? Batti il cinque. Agli italiani batto sempre il cinque. Agli americani offro anche il caffè”. E ai serbi? “Chi? Quelli? A loro chiedo se hanno sbagliato strada”.

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