Marina Abramović: confronti e provocazioni

Sino al 20 gennaio Firenze ospita una grande retrospettiva dedicata alla controversa performer serba.

Di Cristina Pinho

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

In una delle sue opere più estreme e rischiose, Rhythm 0, Marina Abramović aveva messo a disposizione dei visitatori 72 oggetti di varia natura da usare a piacere su di lei. Offrendosi come una bambola inerme, voleva verificare cosa può succedere a una persona quando permette agli altri di farle qualsiasi cosa. Si era ritrovata nuda, ferita, quasi violentata, con una pistola carica puntata alla gola ed enormemente spaventata. «In quel momento mi resi conto che il pubblico può ucciderti». Dopo il tempo stabilito di 6 ore, nel momento in cui ha ripreso a muoversi, la gente non riusciva più a guardarla: sono scappati tutti. «Quello che era successo, molto semplicemente, era la performance. E l’essenza della performance è che il pubblico e l’artista realizzano l’opera insieme» dichiarò in seguito.

Il corpo senza limiti e confini

Nella bellissima mostra «The Cleaner», allestita negli spazi rinascimentali di Palazzo Strozzi a Firenze fino al 20 gennaio, sono presentate le fotografie che testimoniano quell’evento tenutosi a Napoli nel 1974, proiettate al di sopra di un tavolo in cui sono allineati gli oggetti allora messi a disposizione, formando un’installazione che scatena un misto di fascinazione e profondo turbamento.

In generale quasi tutte le oltre cento opere di questa grande retrospettiva sulla performer di origini serbe provocano un travolgente impatto emotivo. Si tratta del frutto della selezione – o pulizia, come indica il titolo – nella memoria e nel percorso iniziato oltre 50 anni fa da colei che ha rivoluzionato l’idea di performance divenendo una tra le più influenti e discusse artiste della scena contemporanea.

Attrazione, collisione e viaggi

Attraverso l’audioguida è la voce di Marina a condurci nel suo mondo e di riflesso in un viaggio all’interno di noi stessi. La prima parte della mostra, dedicata agli anni Settanta, comprende le opere più violente e provocatorie, come quella descritta sopra. È il momento in cui l’artista inizia a indagare il rapporto col pubblico e la sua responsabilità, ma soprattutto i limiti del proprio corpo: sdraiandosi all’interno di una stella di fuoco o su una croce di ghiaccio, giocando con i coltelli, ingoiando farmaci fino a perdere il controllo. Il dolore è concepito come strumento per liberare i sensi, rimettere in questione certi paradigmi – «art must be beautiful» ripete in un video spazzolandosi i capelli fino a strapparseli – e raggiungere uno stato di maggiore coscienza.

Segue la fase (1976-1988) in cui stringe un simbiotico sodalizio professionale e sentimentale con l’artista tedesco Ulay. Questo secondo periodo è introdotto a Firenze da Imponderabilia, una re-performance dell’opera in cui i due alla Galleria comunale di arte moderna di Bologna erano nudi, in piedi, uno di fronte all’altra, e i visitatori dovevano passare di traverso nello stretto spazio tra loro decidendo verso chi girarsi. Attraversando quella porta umana del museo, che mette a nudo i nostri istinti e preferenze, accediamo alle opere di coppia. Tra equilibrio, tensione e sopportazione assistiamo a corpi che si scontrano, bocche serrate una contro l’altra a contendersi l’aria, schiaffi, urla, un arco con la corda tesa puntato verso il cuore di lei e un microfono a rivelarne il battito.

Esposto nel patio, il furgoncino Citroën nero in cui Marina e Ulay hanno vissuto per alcuni anni come nomadi. Arriva poi la sezione dedicata ai loro viaggi negli angoli più remoti del mondo e agli incontri con aborigeni, monaci buddisti, sciamani (evidenti le affinità con Joseph Beuys) alla ricerca di una spiritualità che sarà sempre più fondamentale. Tale fase contraddistinta da dualità e simbiosi si chiude in Cina con il suggestivo The Lovers: lei partendo da Oriente, dal mare, vestita di rosso, lui da Occidente, dal deserto, vestito di blu, camminarono per tre mesi senza sosta sulla Grande Muraglia fino a trovarsi a metà. L’intento era di sposarsi, invece si lasciano per sempre. Oltre ai rapporti personali, l’opera è densa di significati sociali: uno su tutti l’incontro/scontro tra Est e Ovest, comunismo e capitalismo, ai tempi di un altro muro, quello di Berlino.

Essere presente

Terzo atto: Marina sola, quasi monca, decide di ripartire dalle sue origini, riflettendo su esperienza biografica e nazionale. Nel 1997 arriva il momento della consacrazione col Leone d’oro alla Biennale di Venezia. Chiamata a rappresentare la Serbia e il Montenegro mette in scena un’opera scioccante: nel mezzo dello spazio espositivo per 4 giorni lava (pulizia e purificazione, come la lunga durata, sono temi presenti in tutta il suo lavoro) migliaia di ossa di bovino fresche, piangendo e cantando ininterrottamente canzoni popolari della sua infanzia, mentre sulle pareti vengono proiettate immagini sue e dei suoi genitori: «Il lezzo era tremendo, come quello di cadaveri sul campo di battaglia». È la ritualità sacrificale di Balkan Baroque, requiem per la Jugoslavia martoriata dalla guerra.

Guardami in faccia

Altra pietra miliare della sua opera è The Artist is Present, «una delle più difficili che abbia mai realizzato»: nel 2010 al MoMA di New York è rimasta seduta su una sedia, immobile e in silenzio, 7 ore al giorno, per 3 mesi, guardando negli occhi gli spettatori che le si sedevano davanti. Come in una cattedrale, una crescente fila di gente in silenzio reverenziale aspettava il proprio turno per guardare negli occhi quella sorta di sacerdotessa. Il documentario dall’omonimo titolo restituisce la straordinaria potenza di quel semplicissimo atto mostrando le reazioni del pubblico e di Marina a cui spesso lo sguardo si velava di lacrime per la sofferenza che individuava nei volti che fissava; o per l’incontro inaspettato con Ulay dopo oltre 20 anni. La funzione dell’artista? «La mia è sollevare le coscienze». E se siamo disposti a uscire dalla zona di confort qualcosa si innesca dopo l’incontro con la sua opera, e ci germina dentro, a favore di un confronto più consapevole con noi stessi e gli altri.

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PER SAPERNE DI PIÙ

È stata di recente ristampata in edizione tascabile l’autobiografia apparsa in italiano nel 2016 della performer serba, scritta in collaborazione con James Kaplan. Attraversare i muri (Bompiani, 2018) è un viaggio nel quale Marina Abramović
«si confessa, si confida, si lamenta, insegna e riflette con intelligenza e humour sulla sua vita magica e sulla sua arte liberatrice». Figlia di genitori comunisti, decorati come eroi di guerra sotto il regime di Tito nella Jugoslavia postbellica, Marina fu cresciuta secondo una ferrea etica del lavoro. La parte centrale del libro è dedicata alla storia d’amore col collega Ulay: una relazione sentimentale e professionale durata 12 anni, alcuni dei quali passati a bordo di un furgone viaggiando attraverso l’Europa, senza un soldo. Poi l’epilogo cinese…

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