Dolly Parton, altro che ‘stupida bionda’
La cantante country americana è tante cose insieme: femminista, cantautrice, donna di spettacolo. Un documentario disponibile su Netflix ce lo ricorda.
Di Lorenzo Erroi
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Lei ricorda che quando è nato «il movimento per la liberazione della donna, sono stata la prima a bruciare il mio reggiseno in piazza. Ai pompieri ci son voluti quattro giorni per spegnere l’incendio». Basterebbe questa battuta per amare Dolly Parton d’un amore assoluto e incondizionato. Ma c’è anche altro, oltre a quel seno brandito come un fucile in un saloon, quel ‘southern drawl’ fatto di esse strascicate, quelle stilettate ironiche: «Mi fa piacere che vi siate tutti alzati in piedi per accogliermi. O volevate solo riposarvi un po’ le chiappe?».
Per certi versi, la più pop delle cantautrici country è la nemesi di Donald Trump. Lui ha il ciuffo arancione, lei il parruccone biondo platino. Lui ha Mar-a-Lago, lei Dollywood, il suo parco a tema country in un posto il cui nome sembra inventato apposta: Pigeon Forge, Tennessee (tradotto letteralmente: la fonderia del piccione). Donald dice che le donne gli piace «afferrarle per la pussy», quella cosa lì insomma; se provasse a farlo con Dolly, si troverebbe con meno dita d’un falegname distratto. Lui è un newyorchese che si spaccia per voce dell’America profonda. Lei nell’America profonda ci è nata, sulle Smoky Mountains, poverissima e quarta di dodici tra fratelli e sorelle. E quando la va a cantare a New York, quell’America lì, riempie il Madison Square Garden.
Eccomi
Il documentario Here I Am, disponibile su Netflix, è un buon punto di partenza per chi Dolly deve ancora scoprirla, e un buon riassunto per chi da decenni le vuole bene come si fa con una zia indipendente, imprevedibile, un po’ bislacca forse, certamente così forte da poter fare di tutto. E infatti dentro al documentario c’è di tutto, ovvero tutto quello che serve ricordare: l’infanzia passata nella miseria, a imparare la musica da uno zio; l’arrivo a Nashville appena diciottenne, tutta sola, determinata a diventare una stella; un matrimonio celebrato di nascosto per non fare arrabbiare i discografici, che va avanti dal 1966 con un uomo che è sempre rimasto tre passi indietro (citofonare Amadeus); gli spettacoli ai tempi del Grand Ole Opry, la tivù country col Porter Wagoner Show, le tournée infinite, il film Dalle 9 alle 5 orario continuato, storia brillante di tre donne che rapiscono il loro capo e prendono il controllo dell’ufficio. Per dire il talento di una donna che è riuscita a essere insieme cantautrice e spettacolo ambulante: la canzone del film – «sei solo un gradino sulla scala del tuo boss» – la compose fra una scena e l’altra, picchiettando le unghie finte per darsi il ritmo (si sentono anche nella versione definitiva e suonano come una macchina per scrivere).
E poi c’è la musica. Dumb Blonde, stupida bionda, che nel 1967 parla di femminismo dall’ombelico dell’America più conservatrice. Just Because I’m A Woman, un film cantato su una ragazza incinta che viene abbandonata e si butta da un ponte, con la voce che si interrompe bruscamente come quella vita. Jolene, implorazione alla donna che le sta rubando l’uomo: nel documentario Dolly ricorda una donna «facile» che vedeva sempre quando era bambina, «con la minigonna e la pelle bellissima. La mia mamma mi diceva sempre: oh, lei è trash, immondizia. E io pensavo, ecco cosa voglio essere da grande: immondizia». Poi Coat of Many Colors, storia di una ragazzina che deve andare a scuola con un cappotto cucito con stracci di vari colori, e dentro c’è un mondo intero: il bullismo, il coraggio, la Bibbia, una madre che ti insegna che non c’è nulla di male a essere diversi dagli altri, e che «sei povero soltanto se scegli di esserlo» (questo non diciamolo alla Seco, però). O ancora Me and Little Andy, storia di una bimba e del suo cane che in tre minuti fa impallidire Dickens, per come racconta la miseria infantile con tanto di falsetti («Ain’t ya got no gingerbread / Ain’t ya got no candy / Ain’t ya got an extra bed for me and little Andy?»). E poi naturalmente I Will Always Love You. Ma come, non era di Whitney Houston? No, Dolly l’ha fatta vent’anni prima. E prima di lei, da quelle parti, era tutta campagna.
LE SETTE DOLLY
The Best Little Whorehouse in Texas
Il più bel casino del Texas. Un musical con Dolly tenutaria di bordello che si diverte un mondo con lo sceriffo del paese, Burt Reynolds. Eccezionale il duetto di Sneakin’ Around, si trova su YouTube.
I Will Always Love You
Sempre su YouTube si possono paragonare le due versioni, quella di Dolly e quella di Whitney Houston. Perfette entrambe. Dolly rifiutò di vendere i diritti a Elvis, e fece bene.
La pecora
Il primo mammifero clonato nel 1996, la pecora Dolly, prende il nome proprio da lei perché ottenuta da cellule della ghiandola mammaria (sono un po’ bischeri ‘sti scienziati, certe volte).
Il parco di divertimenti
A Dollywood, in Tennessee, fra le altre cose si può visitare il camper che Dolly ha usato per anni in tournée: gli interni di pelle e ottone portano a nuove altezze il significato della parola tacky, l’americano per kitsch.
Lookalike
Una volta, Dolly perse un concorso per sosia di sé stessa: «Credo di avere esagerato col trucco».
Il seno
Dolly è famosa anche per il petto giunonico. Lei stessa ci scherza tantissimo, e le barzellette non mancano: «Sai che taglia di scarpe ha Dolly Parton? Neanche lei».
Bluegrass
Fra la fine degli anni Ottanta e i primi 2000, Dolly passò dal country al bluegrass, un altro genere iconico del Deep South, in particolare degli Appalachi, culla dei veri ‘redneck’ (insulto per definire quegli americanoni contadini bianchi che hanno il collo rosso, per via del sole sui campi). Non ebbe il successo di altre fasi, ma The Grass Is Blue è eccelsa e contribuì a un revival del genere che dura ancora oggi.