Al lavoro fate di meno se volete di più
Socialmente essere ‘molto impegnati’ appare come il segno di una vita intensa e vincente. Ma produttività e creatività richiedono riposo, e una giusta dose di pigrizia.
Di Mariella Dal Farra
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Pigrizia: attitudine fisica e mentale caratteristica del non-fare; sinonimo di abulia, apatia, indolenza, inerzia, ignavia, neghittosità (!), accidia; così recitano i dizionari. Quest’ultimo termine (accidia) ci porta a riconoscerla come uno dei sette vizi capitali, in quanto ostacolerebbe il perseguimento attivo del bene spirituale. Coerentemente, la pigrizia conserva nelle culture cristiane una valenza prevalentemente negativa, sebbene già la teologia morale ne restituisca la complessità, riconoscendola come un rischio specifico della vita contemplativa.
Albrecht Dürer ne fornisce la rappresentazione più famosa nell’incisione Melencolia I (1514; vedi sotto, ndr), dove è raffigurata come un angelo dall’espressione corrucciata che siede circondato da strumenti di misurazione: sopra la sua testa, una tavola combinatoria di numeri «magici» (in qualunque senso li si sommi, danno come risultato «34»); ai suoi piedi, gli attrezzi (sega, chiodi, righello) per operare nel mondo materiale. Ma l’angelo non fa niente; perso nei propri pensieri, tiene il viso appoggiato alla mano e guarda altrove. L’immagine scaturisce dall’interpretazione rinascimentale della melancolia, secondo la quale questa attitudine sarebbe propria del «genio», inteso come capacità di immaginare ciò che ancora non sussiste, e quindi d’inventarlo.
Albrecht Dürer, “Melencolia I”, 1514 – © Wikimedia
Fare, fare, fare!
Tuttavia, il cosiddetto «ozio creativo» continua a non essere visto di buon occhio e la tendenza attuale è quella di riempirsi di cose da fare, come se questo ci rendesse, appunto, più virtuosi. «Se vivi in America nel ventunesimo secolo», scrive Tim Kreider, giornalista del The New York Times, «è probabile ti sia toccato un mucchio di volte ascoltare persone che ti dicono di quanto siano occupate. È diventata la risposta di default alla domanda ‘come stai?’: ‘impegnato!’, ‘molto impegnato’, ‘terribilmente impegnato’. Si tratta, evidentemente, di un vanto travestito da lamentela. E la risposta standard consiste nel congratularsi: ‘È bello avere questo tipo di problema!’ o ‘meglio così che il contrario’. Praticamente tutti quelli che conosco sono perennemente occupati. Le persone si sentono ansiose e colpevoli se non stanno lavorando, o se non si stanno impegnando per promuovere il proprio lavoro» («The ‘Busy’ Trap», The New York Times, 30/6/2012).
Status e prestigio
Larissa Barber, psicologa del lavoro presso l’Università del Northern Illinois, ribadisce lo stesso concetto: «Essere impegnati denota status e prestigio, e se non sei abbastanza occupato o, meglio, sommerso dai tuoi impegni significa che non sei importante o che non stai lavorando abbastanza». Questo eccesso di zelo nell’essere (o nell’apparire) impegnati è aumentato in maniera esponenziale con l’avvento delle nuove tecnologie: siamo reperibili lungo l’intero arco delle ventiquattr’ore, nonché abilitati a lavorare da remoto ormai quasi in ogni settore, il che rende il confine fra ambito privato e lavorativo sempre più labile e incerto. Barber e il suo gruppo di ricerca hanno coniato l’espressione «telepressione del luogo di lavoro» per indicare uno stato di: 1) persistente preoccupazione in rapporto alle e-mail lavorative e comunicazioni correlate; 2) ciò in concomitanza alla compulsione a rispondervi immediatamente (Barber, L. K., & Santuzzi, A. M, 2015; «Please respond ASAP: Workplace telepressure and employee recovery», Journal of Occupational Health Psychology, 20(2), 172).
Obbligati a riposare
Ma questa responsività coatta è davvero sinonimo di efficienza? Dalla ricerca sopra menzionata, svolta su un campione di 300 lavoratori a tempo pieno o parziale, è risultato che le persone che riferivano una «telepressione» maggiore erano anche quelle che perdevano più giorni di lavoro, sperimentavano più spesso stati di esaurimento fisico e mentale («burnout») e dormivano peggio dei colleghi meno ossessionati dalle e-mail. Barber sospetta che questo genere di pressione possa inoltre avere ricadute sulla qualità del lavoro svolto: «Essere responsivi non significa automaticamente essere produttivi. Indica semplicemente che quella persona è presente e disponibile, ma ciò è diverso dal fare un buon lavoro» (Ibidem).
Questi dati sono confermati dal gruppo di ricerca di Leslie Perlow, docente ad Harvard, che nel 2009 ha pubblicato i risultati di uno studio di quattro anni svolto presso i dipendenti del Boston Consulting Group (Perlow, L. A., & Porter, J. L., 2009; «Making time off predictable and required», Harvard Business Review, 87(10), 102-9). Abituati a lavorare in media 60 ore alla settimana e più, rimanendo connessi anche nelle ore non lavorative, i consulenti del Boston Consulting Group sono stati «costretti» a prendere ogni settimana un giorno di ferie o a programmare regolari uscite serali con il divieto di rispondere a telefonate ed e-mail di lavoro.
Tutti i soggetti coinvolti hanno manifestato in prima battuta una fiera resistenza, terrorizzati all’idea che queste «pause» avrebbero fatto lievitare vertiginosamente l’arretrato, ma con il passare del tempo la maggior parte ha constatato che tali pratiche incrementavano sia la motivazione che la capacità di lavoro, aumentando di fatto la produttività. Tanto che il Boston Consulting Group le ha implementate in più di 2’000 gruppi di lavoro, distribuiti su 66 uffici in 35 diverse nazioni. Analogamente, il programma proposto dalla società di consulenza Energy Project – sette ore di sonno ogni notte, utilizzo obbligatorio di tutti i giorni di ferie, possibilità di «micro-recuperi» (15-20 minuti) durante il giorno e meditazione – è stato adottato fra gli altri da Google (di cui è stato partner per più di cinque anni), Apple, Facebook e Coca-Cola.
Il cervello e l’energia
Durante i periodi d’inattività, il nostro cervello ripristina le scorte di attenzione e di motivazione «spese» durante il lavoro; facilita il pensiero divergente, non direzionato, e quindi l’individuazione di soluzioni creative; consolida i ricordi e potenzia la capacità di concentrazione. Tutto questo è diventato evidente a partire dalla metà degli anni Novanta grazie alle tecniche di neuroimaging. Marcus Raichle, ricercatore presso la Washington University di Saint Louis, ha dimostrato come il cervello umano sia costantemente in attività, assorbendo in media il 20% di tutta l’energia prodotta dal corpo. La cosa interessante, tuttavia, è che quando siamo concentrati in un compito come risolvere un problema aritmetico o leggere un libro, l’energia supplementare richiesta è solo del 5-10%. Inoltre, la risonanza magnetica funzionale ha permesso di evidenziare un certo numero di regioni cerebrali che diventano meno attive quando siamo concentrati su un problema, ma che si «accendono» sincronicamente quando lasciamo divagare il pensiero in maniera non direzionata.
Diversi studi hanno confermato il funzionamento, apparentemente paradossale, di questo misterioso circuito che si attiva quando le persone «sognano a occhi aperti» o si distraggono: noto come il Default Mode Network (DMN), questo pattern neurologico sottende una forma di elaborazione qualitativamente diversa da quella consapevole, intenzionale; una modalità introspettiva, auto-riflessiva, che si distanzia dal mondo esterno per estrarre senso e significato dalle nostre esperienze, individuare corrispondenze e generare risposte inedite. Di natura prevalentemente inconscia o preconscia, l’attività psichica associata all’attivarsi del DMN segnala una modifica dell’attenzione: complementare ma sinergica a quella usuale.
Archimede insegna…
Coerentemente, diversi studi suggeriscono che il Default Mode Network sia particolarmente attivo nelle persone che svolgono professioni di tipo creativo, anche se non è necessario essere artisti per sperimentarne gli effetti nella vita quotidiana: a ciascuno di noi è capitato di arrovellarsi inutilmente su un problema, magari per ore, poi decidere di andare a fare una passeggiata, pensare a tutt’altro e al ritorno, quasi magicamente, capire quale sia la cosa giusta da fare o il modo giusto per farla.
Anche se apparentemente queste «epifanie» si producono dal nulla, magari mentre dormiamo o facciamo la doccia, sono in realtà il frutto di un’elaborazione attiva che si svolge appena al di sotto della soglia della nostra coscienza, di cui il DMN costituisce probabilmente il correlato più importante. D’altra parte, la storia è piena di aneddoti nei quali intuizioni «geniali» scaturiscono spontaneamente da stati di quiete e d’inattività: l’«Eureka!» di Archimede nella vasca da bagno; la mela che cade su Newton mentre sonnecchia sotto l’albero e che gli consente di realizzare l’esistenza della gravità. Dunque, pensiamoci: qualche ora di ozio ben programmato potrebbe davvero restituirci quel quid di creatività di cui abbiamo così urgentemente bisogno nella vita di ogni giorno.
TECNICHE DI RESISTENZA – Sonnellini, meditazione e passeggiate nella natura
Come contrastare la crescente pervasività dell’attività lavorativa e ricavare spazi di recupero senza, auspicabilmente, farsi licenziare? Alcuni psicologi del lavoro suggeriscono tre accorgimenti per massimizzare i benefici di una pausa.
A) Micro-sonnellini: diversi studi dimostrano come brevi sonnellini diurni migliorino l’attenzione e la performance lavorativa. Più precisamente, una ricerca condotta nel 2006 (Brooks, A., & Lack, L; «A brief afternoon nap following nocturnal sleep restriction: which nap duration is most recuperative?». Sleep, 29(6), 831-840) ha messo a confronto gli effetti di sonnellini di 5, 10, 20 e 30 minuti, rispettivamente. I risultati mostrano che dormire per 5 minuti non produce alcun beneficio, mentre le «penniche» di 10 minuti determinano un immediato miglioramento su tutti i parametri, inclusi la riduzione del senso di affaticamento, un incremento dell’energia percepita e il potenziamento della performance cognitiva. Alcuni di questi benefit durano fino a 155 minuti dopo il risveglio.
B) Marc Berman, uno dei principali esponenti della neonata ecopsicologia, afferma che l’iper-stimolazione a cui siamo sottoposti quando ci muoviamo in un contesto urbano depaupera la nostra attenzione, mentre gli ambienti naturali la ristabiliscono. Lo ha provato attraverso un esperimento controllato nel quale 38 studenti universitari dovevano memorizzare un certo numero di dati in due condizioni diverse: dopo avere camminato per un’ora in un arboreto selvatico o dopo una passeggiata di analoga durata nelle vie trafficate di un centro cittadino. La performance dei primi è migliorata in media di 1,5 unità; quella dei secondi, solo di 0,5. È dunque altamente raccomandabile, ogni qualvolta ciò sia possibile, concedersi brevi (o lunghe!) escursioni nella natura.
C) I benefici derivanti dalle pratiche di meditazione, sia del tipo Mindfulness che di altro genere, sono ormai scientificamente comprovati. Per esempio, è stato dimostrato come la meditazione rafforzi le connessioni fra diverse regioni cerebrali e il circuito DMN, facilitando e rendendo più efficienti i passaggi da una modalità all’altra. Oltre ai positivi effetti a lungo termine, la meditazione migliora attenzione e memoria nell’immediato: una pratica agile e salutare che aiuta a ripristinare l’equilibrio anche quando abbiamo poco tempo a disposizione.
© iStockphoto