Zanzibar o l’isola della bellezza
Nell’arcipelago della Tanzania è diffusa la coltivazione delle alghe rosse. Un’importante fonte di guadagno per i locali, controllata dai ‘soliti’ cinesi.
Di Cristina Ferrari
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
È la marea a scandire la vita e i ritmi delle giornate zanzibarine. Le spiagge il loro smisurato teatro. Qui, in pieno Oceano Indiano, in quella che è ricordata come l’isola che ha dato i natali a Freddie Mercury, fra svogliati turisti e vivaci pescatori indigeni si staglia un arcobaleno di colori che lascia senza fiato. Dal blu più profondo al turchese più abbagliante in un gioco di riflessi che va a fondersi con l’infinito.
Abena attende con pazienza il ritirarsi delle onde. Lì in riva al mare il caldo si è fatto opprimente e non le resta che trovare riparo sotto il suo kanga, il tradizionale abito che ha scelto nelle tinte verdeoro. L’attende un pomeriggio di fatica, piegata nell’acqua a raccogliere le alghe destinate alle tavole e ai corpi di altre donne, più benestanti. Con lei c’è Rusha, il volto segnato dalla salsedine e i capelli arruffati dal vento.
Risorsa vitale
Nell’arcipelago di Zanzibar, a Unguja così come nella vicina Pemba, la coltivazione delle alghe è diventata nel tempo un’importante fonte di sostentamento. È dal 1988 che, importata dalle Filippine, la Eucheuma, la versione rossa di questa «insalata di mare», è diventata faro dell’economia locale in quanto destinata all’esportazione soprattutto nel settore dell’industria alimentare – è ingrediente fondamentale per produrre la carragenina, prezioso addensante – e dei cosmetici.
L’attesa intanto sembra volgere al termine. Kanika e Samia l’avvertono dai primi ciuffi che affiorano dai flutti ormai lontani. Caricati i loro cesti in testa si avvicinano ai bastoncini posati quale segnale. Sotto, nelle acque cristalline si intravede l’inconfondibile porpora di quelle numerose pianticine seminate con ordine e speranza di raccolto. Per le famiglie del luogo una fondamentale sorgente di guadagno, per chi ne usufruirà un piatto gustoso e un’alleata di bellezza.
Oggi a Zanzibar la coltivazione delle alghe rosse è la terza voce dell’economia locale, dopo il turismo e lo smercio di spezie, soprattutto chiodi di garofano, noce moscata, cannella, pepe e zenzero. A occuparsene sono esclusivamente le donne, come insegna e impone una cultura fondamentalmente africana e patriarcale. Gli uomini si dedicano maggiormente alla pesca a bordo delle imbarcazioni tipiche dell’isola, i dhow. È quindi l’altra metà del cielo che tramanda, di generazione in generazione, tecnica e cura di questi speciali orti marini. Spesso, infatti, attorno a Oluchi o Zawadi, i nomi di altre donne che abbiamo incontrato, staziona un nugolo di bambini e bambine chiamati a sollevare le madri dal peso di una faticosa occupazione.
«I nostri padroni sono soprattutto cinesi», ci fa sapere una di loro. «Coltiviamo per loro le alghe destinate al mercato in modo particolare asiatico. A ciascuna di noi viene assegnato un lotto delle diverse lagune. La protezione della barriera corallina permette alle piantine di crescere e di espandersi. La sera sono stremata: l’acqua e il sole mi irritano la pelle, ma i bisogni della famiglia sono una necessità alla quale devo assolutamente fare fronte».
Salute e natura
Guardandole, piegate o sedute in mezzo agli acquitrini, ci portano alla mente le più nostrane mondine impegnate nelle risaie della Pianura Padana. Non sentiamo canti però, il meccanico lavoro delle donne zanzibarine è timido e silenzioso. Come il ciclo dell’alga a sua volta lento e sommerso che impiega circa cento giorni per maturare e passare da un cupo colore bruno a un rossastro acceso. È questo il momento della raccolta negli ampi contenitori fatti di fibra di cocco. Enormi ceste trasportate poi a margine dei villaggi dove le alghe, lontane dal mare e dall’umidità, trovano posto per l’essiccazione.
Una volta pronte per la commercializzazione le alghe vengono lavorate in vicine officine, impacchettate e spedite nei Paesi dove sono considerate una vera prelibatezza o dove sono richieste per trasformarle in creme e rendere pelle e capelli più belli, forti e luminosi per la loro caratteristica di antiossidanti ed elimina-tossine. «Noi non le mangiamo» ci risponde una giovane coltivatrice. «Sono quasi tutte destinate all’esportazione. Con la crisi del mercato delle spezie avvenuta negli ultimi anni, le alghe sono fra le nostre entrate primarie. Dal 2010 però, attraverso il Seaweed Center, ne utilizziamo una parte per produrre prodotti per la cura del corpo, oli e saponi profumati. A rendere i nostri prodotti molto richiesti è anche la composizione naturale fatta di assenza di sostanze chimiche e utilizzo di principi prodotti dalle api, come il miele e la cera».