Io lo odio, il circo
Ma non è detto che non possa cambiare idea…
Di laRegione
Io lo odio, il circo. Mi ricorda pomeriggi di domenica intrisi di sudore e languore – ungarettiano, ça va sans dire, ché qua ce la tiriamo tantissimo –, pipì trattenuta, clown mostruosi, gag stantìe, elefanti con le occhiaie, ragazze magrissime costrette a rischiare l’osso del collo sul trapezio o una coltellata in fronte. E poi l’ineluttabile foto con la scimmietta – cos’è, ‘Trova le differenze’? – rivenduta ai miei genitori con l’osceno ricatto del «ricordo indelebile» (la definizione più onesta sarebbe «trauma infantile»).
Mentre crescevo, il circo è cambiato. Sono emerse piccole realtà al confine fra vecchie maniere e nuovi esperimenti narrativi, la figura del clown è stata ripensata; i cliché degli anni Ottanta – peste del gusto per questa come per mille altre cose – sono evaporati al punto che oggi, se tornano, hanno almeno la patina nobilitante della nostalgia. Ma la mia diffidenza, ormai in odore di smaccato pregiudizio, rimane immutata. Di più, si combina con una sussiegosa sufficienza nei confronti degli adulti che il circo lo amano, ai quali propino noiosissimi fervorini sulla sindrome di Peter Pan fino
a quando, stremato e ormai in preda a un delirio narcisistico, mi abbandono sul divano e con gesto calcolato esalo un «voi andate pure, io ascolto Bach» (che poi non è vero, ma suona bene). Per fare ammenda ho chiesto a Sara Rossi Guidicelli di raccontarci cos’è davvero, ’sto circo. Di riportare aspirazioni e bisogni di persone che vivono per «stralunare», girovaghi come marinai e precari come acrobati.
Chissà ch’io non guarisca.