United Roads of America. La realtà di Reality

Si chiama Reality Winner. Non è un nome d’arte e non ha vinto nulla. Anzi, del 2017 è in prigione per aver rivelato quanto in pericolo fosse la democrazia

Di Emiliano Bos

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

Aveva sottratto di nascosto documenti riservati dei servizi segreti. Che confermavano lo sforzo della Russia di attaccare i sistemi elettorali degli USA alla vigilia delle presidenziali del 2016, poi vinte da Donald Trump. Reality, allora 25enne, passò quelle carte top secret a un sito d’inchiesta che le pubblicò. Lavorava come collaboratrice esterna della National Security Agency (NSA), la centrale dell’intelligence americana. 

Talpe USA e fischietto UBS 

Una whistleblower, come si dice qui. Cioè chi “suona il fischietto” – come si faceva tra i soldati ai tempi dell’Indipendenza – per segnalare qualcosa che non funziona dentro un’istituzione, un’azienda, un governo. Alle nostre latitudini si chiama “informatore” o “talpa”, ma forse non rende giustizia. Reality non s’è infilata sottoterra. Ha ammesso le proprie responsabilità. Nel 2018 è stata condannata in base a una legge sullo spionaggio che risale alla Prima Guerra Mondiale. Una norma mai applicata prima in modo così duro: 63 mesi di carcere. Di lei mi parlò David Colapinto, un avvocato di Washington che si occupa da anni di whistleblower. E che ha fondato un centro nazionale per proteggerli. Il suo studio legale ha negoziato tra l’altro la ricompensa da oltre 100 milioni di dollari per Bradley Birkenfeld, l’ex banchiere americano dell’UBS che raccontò al fisco USA le pratiche di evasione fiscale della banca elvetica, costringendola a pagare una multa di 780 milioni di dollari nel 2009 per evitare procedimenti penali. 
In Europa la vicenda di Reality è poco conosciuta. A differenza di Edward Snowden – che svelò al mondo lo spionaggio su scala globale, quello sì, degli USA – lei è rinchiusa in un carcere federale. Per questo sono andato a trovare sua madre a Kingsville, in fondo al Texas. Sei ore d’auto a sud di Dallas. Gli ultimi cinque minuti su una strada sterrata che porta a un’abitazione isolata nella piatta pampa petrolifera a ridosso del Golfo del Messico. 


© E.Bos
Qui mentre mostra un attestato di riconoscimento che Reality ha ottenuto durante il suo servizio nellʼaviazione militare.

Un’eroina, non una spia 

La signora Billie Winner-Davis è una donna mite e minuta. Sprigiona energia senza scintille di rancore verso chi imprigiona sua figlia. “Reality è una patriota: ha fatto tutto questo perché lo riteneva giusto”. Però ha violato la legge, le faccio notare.
“Non aveva alternativa: a differenza dei dipendenti del governo, i collaboratori esterni come lei non hanno un canale istituzionale per segnalare ciò che non va”. Suonando quel fischietto, Reality si è messa dalla parte del torto, secondo le autorità USA. “È stata la prima a far sapere dell’attacco della Russia contro il nostro paese”, insiste Billie. Un’eroina, dice, altro che una spia. La Procura ha scritto che rivelando quei documenti Reality ha provocato un “enorme danno alla sicurezza” degli Stati Uniti. 
“Non lo hanno dimostrato ed è vero il contrario: noi americani – prosegue Billie – avevamo il diritto di saperlo: tutta l’intelligence ne era a conoscenza ma non ce l’hanno detto. C’è voluta Reality”. Un atto di coraggio, secondo la sua mamma. Nel 2017, mi dice ancora, “aveva 25 anni, era un’idealista. Lo riteneva giusto”.
All’epoca aveva appena terminato un servizio di 6 anni nell’aviazione militare. Reality parla diverse lingue, tra le quali l’arabo. È stata impegnata a lungo nelle missioni per individuare terroristi. “Ha contribuito a smantellare la rete dei Talebani, di Al-Qaida e dell’Isis”. Intercettava le loro telefonate e forniva le posizioni per poterli colpire. “L’hanno anche premiata per il suo impegno” , aggiunge Billie mostrando la decorazione incorniciata e appesa a una parete del salotto. 


© E.Bos
La mamma di Reality Winner insieme al compagno Gary davanti alla loro casa di Kingsville, nel sud del Texas.

La cella e la pandemia 

Quando l’ho incontrata era appena tornata dal suo pellegrinaggio periodico al carcere federale di Fort Worth, vicino a Dallas, dov’è rinchiusa Reality. Quasi 700 chilometri in auto ogni due settimane. Nei mesi successivi quella detenzione è diventata ancora più angosciante a causa del Covid. Nel reparto maschile, nel periodo successivo, sono morti 12 detenuti. Quella prigione – come molte altre – è diventata un focolaio. “Vivo nel terrore che si ammali” , mi disse Billie al telefono lo scorso luglio. Ad agosto Reality risultò positiva al Covid-19. Ne è uscita. Dall’infezione. Ma non dalla sua cella. 
Nei mesi scorsi è stata respinta anche una richiesta di scarcerazione per motivi umanitari. “Reality è una vittima sacrificale perfetta, è stata punita come deterrente per altri” , dice ancora la madre. Che denuncia anche le limitazioni ai suoi diritti durante il processo e la detenzione. Solo 5 persone erano autorizzate a visitarla, prima che il Covid-19 bloccasse tutto. “Il nostro sistema carcerario è folle, persino l’accesso al suo avvocato è complicato e ci vogliono mesi d’attesa a volte”. Sembra un paradosso ma poco più di un anno fa Billie, ex assistente sociale, ha trovato un impiego proprio all’interno di una prigione. “Ero già in pensione, ma dopo la condanna di Reality non potevo né volevo restare in casa. Mi sono chiesta: riuscirò a lavorare in un carcere?”. L’hanno assunta in un centro di detenzione privato, una struttura for-profit dove sono rinchiusi soprattutto immigrati o trafficanti arrestati nelle zone di confine col Messico. “Una mattina nella biblioteca vidi una detenuta di spalle, con la divisa arancione e i capelli biondi. Mi si gelò il sangue: sembrava Reality”. Ovviamente non era lei. Ma Billie prova a trattare i 650 detenuti del “suo” carcere come se fossero sua figlia: “Cerco di restituire loro un po’ di dignità e farli sentire esseri umani. A volte è un rotolo di carta igienica, altre è un numero di telefono per l’assistenza legale”. 


© E.Bos
Reality Winner è cresciuta nel sud del Texas. Ha già fatto sapere che quando uscirà dal carcere vuole tornare qui.

Gli appelli a Trump e Biden 

Mobilitazioni online, uno spettacolo a Broadway su Reality, l’appello di Amnesty International. Nessun risultato. L’ex contractor dell’intelligence resta in cella. “L’unico modo per tirarla fuori di lì è attirare l’attenzione del presidente. Ma non siamo ricchi e siamo democratici”, mi disse Billie a marzo del 2020. Un paio d’anni prima Trump aveva scritto di sua figlia in un tweet: una condanna “ingiusta” , scrisse l’allora presidente citando questo caso per prendere di mira il suo ministro della giustizia Jeff Sessions. Per Billie e per Reality si accese una speranza. Che si è spenta lo scorso 19 gennaio. Alla vigilia della sua uscita dalla Casa Bianca Trump ha graziato 143 persone, il mese prima altri 46. Tra questi: una serie di alleati politici, quattro mercenari accusati di aver ucciso una dozzina di civili in Iraq e due ex guardie di confine accusate di aver sparato a un immigrato disarmato. Ma su quella lista il nome di Reality Winner non c’era. “Adesso speriamo nel presidente Joe Biden”, dice Billie con la voce di chi non ha perso la speranza. “Però il tempo sta passando e lei resta in prigione”. 
La raccolta di firme online per la richiesta di grazia al presidente ha ampiamente superato in questi giorni quota 15mila. Da una vetrata del tinello di casa sua, Billie mi aveva mostrato un prato. “Lì sorgerà il cottage di Reality, avrà il suo spazio e potrà stare con noi. La stiamo aspettando”. 

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