Sarajevo: vivere in una città ‘diversa’

La capitale della Bosnia ed Erzegovina guarda al futuro con fiducia. Parola di Andrea Marcolongo, che qui abita e lavora.

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

 

Bella è bella, Sarajevo. A costo di scomodare i soliti aggettivi da ufficio del turismo: è dinamica, multiculturale e piena di dignità. La capitale bosniaca ha però anche un altro grande pregio: quello di essere uno specchio e di mostrare inclemente a noi occidentali, complici gli ancora ben visibili segni lasciati dalle mine sulle strade e dai proiettili sulle facciate dei palazzi, quello su cui abbiamo chiuso gli occhi e, allo stesso tempo, quello su cui potremmo tornare ad aprirli, in questi tempi europei così cupi, se solo sapessimo recuperare anche noi quell’entusiasmo, quell’energia e quella gioia di vivere che tanto ci colpiscono quando incontriamo gli abitanti di Sarajevo. 

Di guerra in guerra 
Sarajevo è la città da cui partì il colpo di pistola che fece esplodere la Prima guerra mondiale – anzi due: quelli coi quali Gavrilo Princip uccise l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, il 28 giugno 1914. È anche il simbolo di un socialismo reale ma ‘alternativo’ a quello di Mosca, realizzato sotto la guida del Maresciallo Tito, fino a raggiungere un relativo benessere. Ma pure quello era il canto del cigno della capitale bosniaca: perché sotto una normalità apparente già germogliavano i moti nazionalisti. Morto Tito, caduta la cortina di ferro, dissoltasi la Federazione jugoslava, arrivò la guerra civile. 
La città fu accerchiata il 6 aprile 1992 e chiusa in una sacca dalle forze serbe. Subì un assedio implacabile e lunghissimo, durato tre anni e degno del Medioevo. Serbi contro bosniaci, cristiani contro musulmani, popoli da sempre uniti si ritrovarono uno contrapposto all’altro, in una guerra che mostrò all’Occidente degli anni Novanta, lassista ed egoista, atrocità che alle nostre latitudini sembravano relegate oramai solo ai libri di storia e che culminarono con episodi di pulizia etnica come quello di Srebrenica. 

L’esperienza diretta
Finalmente, dopo il massacro di Srebrenica la Nato intervenne nel conflitto. Gli Accordi di Dayton, firmati nello stesso anno (1995), misero fine ai combattimenti. A Sarajevo restavano le macerie, i morti, le cui lapidi bianche, sparse lungo le vallate, rilucono ancora oggi ad ogni calar del sole, e un tunnel, detto tunnel della speranza, costruito sotto la città ne permise la sopravvivenza durante l’assedio.
Proprio da qui, da queste macerie e da questa sofferenza, è risorta la fenice. Poco a poco la città ha riconquistato la pace; una pace fragile e precaria, certo, ma proprio per questo vivace e preziosa. In quest’atmosfera unica, la giovane scrittrice italiana Andrea Marcolongo, già ghostwriter di Matteo Renzi, poi autrice del fortunatissimo bestseller La lingua geniale. Nove ragioni per amare il greco (Laterza, 2016) e del successivo e altrettanto celebre La misura eroica. Il mito degli Argonauti e il coraggio che spinge gli uomini ad amare (Mondadori, 2018), ha trovato tutto ciò che stava cercando, come mi conferma durante l’intervista: l’ispirazione per scrivere, una nuova casa, una nuova vita e l’amore.

Andrea, oggi vivi a Sarajevo, hai lasciato l’Italia e oggi consideri la Bosnia-Erzegovina la tua terra. Più di una volta l’hai definita il tuo porto sicuro, il solo luogo in cui hai sentito la forza di stare al mondo… 
«È proprio così. A Sarajevo, città in cui vivo oramai da quattro anni, ho capito cosa significa non avere paura di vivere. Quanto è accaduto in Bosnia negli anni Novanta, la guerra, lo conosciamo tutti. All’inizio ne ero travolta, i segni delle mine ancora visibili, i buchi delle pallottole sulle facciate delle case, poi però ho capito che oggi a Sarajevo si celebra la vita, si vive in nome e in onore di chi non c’è più. Questa città mi ha reso chiaro che certe tristezze, che ci concediamo noi occidentali (e non è un giudizio di merito), sono un lusso che a volte proviamo anche solo per il gusto di provare. Il coraggio e la voglia di vivere traboccano ovunque per le strade di Sarajevo e ti contagiano. La città e la gente sono liberi dal fantasma della guerra. È vero, il conflitto e i massacri ci sono stati, è stato terribile, ma quando gli spari sono cessati la vita è stata riaffermata con ancora più vigore. Con i miei amici raramente parliamo della guerra e non si tratta né di un tema tabù, né del primo argomento di discussione. È da fuori piuttosto che il tema si impone, le domande, Sarajevo, la guerra, come se ci fosse un senso di colpa per averlo, di fatto, abbandonato questo paese. Inoltre qui scorre un altro tempo della vita, che per me dovrebbe essere il tempo normale. Decisioni banali, come partire per un fine settimana, sposarsi, fare un figlio hanno un tempo più breve a Sarajevo, come se fosse dovuto celebrare la vita».

La Bosnia-Erzegovina non è parte dell’Unione europea, la povertà è presente, la valuta in circolazione ancora oggi è il marco convertibile (adottato dopo gli accordi di Dayton nel 1995), ma nonostante le difficoltà la società bosniaca colpisce per la sua dignità, la sua autenticità: che siano retaggio del passato socialista jugoslavo? Valori che forse noi in Occidente abbiamo perso? 
«La tua domanda è delicata e voglio rispondere in maniera altrettanto precisa. Avendo avuto un passato socialista, Sarajevo, così come tutta la Ex Jugoslavia, è rimasta in un certo qual modo al riparo da alcune esagerazioni, deformazioni capitaliste che noi stiamo pagando oggi, che la nostra generazione sta pagando oggi. Spesso mi sento più lontana dal mio mondo a Sarajevo di quanto possa sentirmi a Singapore, perché l’Asia contemporanea è più simile all’Europa e agli Stati Uniti di quanto non lo siano Sarajevo o Belgrado. E, ben inteso, non si tratta di un giudizio di povertà».

Come ti sei ritrovata a Sarajevo?
«Non ho una storia particolare, però una cosa mi piace dichiararla: si tratta di una scelta lontana dai cliché. Se fossi capitata a Parigi (sono di madre francese), mi fossi seduta al Café de Flore e avessi deciso di trasferirmi in Francia, sarebbe stato normalissimo. Cinque anni fa mi sono ritrovata a Sarajevo durante un viaggio turistico attraverso i Balcani e ricordo di essermi detta che in questa città così ferita, ma non arrabbiata per la guerra, sarei dovuta tornare. Non sapevo che quel poi sarebbe stato pochi mesi dopo, quando ho scritto il mio primo libro. Tutti i miei libri sono dedicati a Sarajevo e io scrivo solo e unicamente a Sarajevo. Così torna, torna, torna, alla fine non sono più tornata in Italia. Sarajevo è casa, ci sono i miei amici, il mio fidanzato, i miei cani».

Cosa ti ha dato Sarajevo che l’Italia non ha saputo offrirti?
«Sarajevo mi ha insegnato il rispetto. Questa città mi ha fatto capire che un no è sempre un no e un sì è sempre un sì, non un forse, magari, vediamo, chissà, domani. Il rispetto a Sarajevo viene prima di tutto. Qui ho capito che se si rispetta se stessi poi anche gli altri lo faranno. Questa città mi ha insegnato che si può essere fermi, ma con tenerezza, che non c’è bisogno di urlare per farsi ascoltare. Sarajevo è stata in grado di darmi una terra del cuore, una heartland. Mi sono sempre sentita straniera in Italia e straniera in Francia, mentre a Sarajevo non solo sto bene, ma sono fiera di dire: sono bosniaca». 

Il viaggio che ti ha portato e riportato più volte a Sarajevo è anche quello del tuo secondo libro La misura eroica?
«La misura eroica nasce innanzitutto da un mio rifiuto a tutte le proposte di natura commerciale che mi sono state fatte in seguito alla pubblicazione de La lingua geniale. Il mio primo libro ha venduto quasi un milione di copie nel mondo e tutti mi chiedevano di scrivere il sequel, ma non mi interessava. Infatti, sono convinta che i libri si debbano scrivere solo se si sente veramente bisogno di dire qualcosa. Io avevo tanto bisogno di lanciare un appello a questi tempi. Attraverso il mito degli Argonauti ho voluto lanciare un monito: dove stiamo andando? Chi siamo? Perché ci riduciamo ad abbassare ogni singolo giorno il livello, sia esso politico, culturale, civico, umano o sentimentale? Perché siamo diventati così? Perché tutto è rivolto verso il basso? Siamo al mondo per fare cose grandi. Dante nel Paradiso scriveva che siamo a bordo di una “piccioletta barca”, vogliamo limitarci a sopravvivere e a stare a galla o solcare il mare con una nave solida e grande come Argo? È questo l’appello della misura eroica. Io tento di essere fedele al mito ogni giorno, anche se non è semplice, perché non ho voglia di accontentarmi, di rinunciare, di limitarmi a guardare. Questo libro poteva nascere solo a Sarajevo, lontano da una certa realtà e quindi con una prospettiva nitida sulle cose e sulle situazioni. A Sarajevo ho scritto La misura eroica e poi, sempre a Sarajevo, l’ho vissuta sulla mia pelle. È così che ho capito che è più facile scrivere che essere fedeli a ciò che si scrive. Quest’estate mi sono trovata io, in prima persona, a dover scegliere la mia misura eroica, cioè scegliere di rimanere a Sarajevo per sempre, per amore. È una scelta che ho meditato a lungo, ma come scrivo nel libro, le scelte devono essere tali, non si possono compiere a metà, altrimenti non valgono».

Perché consigli di visitare Sarajevo?
«Perché è una città. È un luogo che unisce tutta la nostra storia: piccole parti di storia latina, europea, austroungarica, ottomana, tutte raccolte in un solo posto. È come se Sarajevo fosse un museo dei popoli a cielo aperto, un museo dei viventi. In Europa oggi corrono tempi difficili, visitare Sarajevo è anche una buona occasione per toccare con mano un esempio di integrazione. Nella via dove abito io ci sono una moschea, un convento di suore di clausura e una chiesa cattolica nel giro di 50 metri».

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