Homo sum
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Di laRegione
Mi sa che non esiste quasi mai solo un moralismo. Di solito – quale che sia il tema – se ne vedono almeno due: due modi di segno opposto per (pre)giudicare il prossimo in nome di principi astratti. E finisce che ci inciampiamo un po’ tutti. Prendete la prostituzione. Da una parte troviamo chi vi vede un pericoloso elemento di corruzione sociale. Dall’altro, per tradizione non meno secolare, c’è chi fa della prostituta (o del ‘prostituto’, se è per quello) il simbolo ultimo di una società dello sfruttamento, la vittima sacrificale da salvarsi a tutti i costi. Nel mezzo però c’è tutta una serie di sfumature, di casi individuali che si sottraggono ai nostri stereotipi: ogni mestiere ha i suoi professionisti; spesso per necessità, raramente per vocazione. Cristina Pinho ci racconta una fra tante storie del genere. Senza vellicare un’inutile pruderie, bensì all’insegna del motto terenziano: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Sono un essere umano, e nulla di umano ritengo estraneo. In fondo è lo stesso spirito che anima le nostre leggi in materia: si legalizza la prostituzione – anche per proteggerla – invece di confinarla nel limbo del proibizionismo. Nella consapevolezza che i divieti, per quanto benintenzionati, servono solo a incoraggiare la clandestinità e lo sfruttamento schiavile. Insomma, si è capito che una salutare combinazione di pragmatismo e umanità paga. Magari potremmo ricordarcene anche quando parliamo di altre cose: codice penale, stato sociale, droghe, migranti… Ma sto già ricadendo nel moralismo, dannazione.