Startup, miti da sfatare
Farcela non è impossibile, ma serve costanza e tanta voglia di riuscire
Di laRegione
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Non ci si improvvisa ‘startupper’ di successo e non è facile creare imprese vincenti. La prima cosa da imparare? Non arrendersi quando va male.
Parli di startup e la narrazione segue quasi sempre un percorso obbligato: un garage, computer ovunque, giovani in bilco tra genio e sregolatezza, un’idea che nasce dal nulla ma che si rivela in breve tempo rivoluzionaria. E quindi tanti soldi per i protagonisti della favola che si ritrovano nababbi senza quasi far fatica. Un mito seducente che però sempre un mito resta, dato che ben nove startup su dieci non sopravvivono ai primi tre anni di attività. La prima cosa con cui fare i conti nel mondo delle startup, quindi, è sopravvivere a un fallimento. Lo conferma Andrea Dusi, startupper realizzato che agli insegnamenti ricevuti dai tanti errori a cui è andato incontro nella sua carriera ha dedicato il libro Come far fallire una startup e vivere felici (Bompiani, 2018).
«Se si vogliono ottenere dei risultati non bisogna pensare che fallire sia una colpa, ma solo un errore da non ripetere» chiarisce Dusi: «Intendiamoci, fallire fa malissimo, porta con sé dolore e anche disperazione. Ci costringe a interrogarci non solo sulla nostra vita lavorativa ma su noi stessi a 360 gradi. Però il fallimento ci costringe ad analizzare quello che è successo in modo che possiamo ripartire non commettendo più gli stessi errori. Il successo fortifica la nostra motivazione, però non sono i successi a farci imparare». Sbagliando si impara, soprattutto se si riesce a superare la concezione molto radicata nella nostra cultura per cui il fallimento è una sorta di colpa da espiare. Negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone l’atteggiamento è diverso. C’è molto rispetto per chi fallisce, impara dai propri errori e poi riparte. Non c’è viceversa nessuna tolleranza per chi imbroglia e si salva magari dichiarando fallimento.
Cosa si apprende dagli errori
La ripartenza deve portare lo startupper a prendere coscienza di alcune realtà. Prima di tutto che le startup non sono il paese del Bengodi per chi vuole tentar la fortuna, come ci conferma Andrea Dusi: «La motivazione iniziale per avviare una startup non può essere diventare ricchi. Non è una motivazione sufficiente a superare i momenti di difficoltà che sempre ci sono in qualsiasi impresa. Quando lavori per anni diciotto ore al giorno feste comprese non bastano i soldi a farti andare avanti. Mi fa sorridere chi mi dice che lavora a una startup part-time!».
Insomma, ti butti anima e corpo in una startup perché ci credi e senti che vuoi realizzarti con un’impresa che è totalmente tua. Sei animato da desiderio di affermazione e di riscatto. Pensi di lavorare a qualcosa che migliori la vita di tutti e ti ci butti completamente, tanto che il lavoro diventa tutt’uno con la tua esistenza. Lo startupper è un po’ come i piccoli imprenditori di un tempo, che costruivano casa accanto alla loro impresa perché quella era la loro vita. Insomma, non si può improvvisare una startup e ad emergere sono i più tenaci, i più coraggiosi e anche i più preparati. Perché lo studio conta moltissimo anche se esiste il mito dell’imprenditore che abbandona la scuola e poi fa fortuna. Se andiamo a vedere, la maggior parte delle persone che ha creato imprese di successo nel mondo dell’innovazione ha alle spalle anni di studio, competenza, preparazione. Altro che ragazzotti in un garage a smanettare sul computer.