Autogestione: qui epicentro Molino

Quando se ne discute le prospettive sono spesso limitate e le posizioni ideologiche. Ma qual è la storia del Centro sociale autogestito il Molino?

Di Cristina Pinho

Pubblichiamo un contributo apparso in Ticino7, allegato del sabato nelle pagine de laRegione.

Viale Cassarate inizia vicino alla giovane università della Svizzera italiana e attraversa una porzione di Lugano accompagnando il fiume da cui prende il nome verso la rinnovata zona della foce. A metà strada, al numero civico 8, si trova uno stabile che per un secolo è stato sede del Macello comunale, fino alla sua chiusura nel 1993. Da 18 anni a questa parte i muri a cui erano inchiodati cappi e ganci hanno iniziato a coprirsi di graffiti e scritte che testimoniano frammenti di storie delle quali chi è passato da questo crocevia ha voluto lasciar traccia. Siamo al Centro sociale il Molino, un mercoledì notte di inizio marzo; alle porte un vento sinistro che inizia a soffiare verso nord. In cucina c’è una pentola d’acqua che sobbolle con dei tortellini, dalla stufa proviene lo scoppiettio della legna che brucia, qualcuno dietro al bancone seleziona la musica, altri si scambiano impressioni su interventi ascoltati in precedenza. Con una decina di loro mi sono incontrata a inizio serata, prima di andare a un dibattito pubblico sull’autogestione in Ticino organizzato all’Usi e confluire infine tra le pareti rimodellate da questa forma di organizzazione. La narrazione dell’esperienza qui proposta è affidata a una parte della molteplicità di voci che da tanto o poco tempo ne sono protagoniste.

Un porto sepolto

“Lugano è sempre stata una cittadina molto bella, ma nel tempo, con le varie politiche che l’hanno resa la terza piazza finanziaria del Paese e una vetrina sempre più straripante di oggetti esclusivi, è andata a distruggersi quella che era la vita sociale, l’identità dei quartieri”. ‘Città continua, uniforme, che va coprendo il mondo’ scriveva Italo Calvino nelle sue Città invisibili. “In questo contesto si è sviluppata l’esigenza di creare degli spazi liberi, di incontro e aggregazione, dove poter ragionare e vivere un pezzo di terra in maniera differente”. Così nel 1996, dopo anni di rivendicazioni per uno spazio socioculturale autogestito come ne sorgevano dappertutto in Europa e oltre Gottardo, alcuni collettivi hanno deciso di occupare lo stabile in disuso degli ex Molini di Viganello. “L’idea era di fare una festa di uno o due giorni, ma siamo rimasti là un anno, fino all’incendio”. È seguito un lungo periodo di attività al Maglio di Canobbio e dopo il suo sgombero è stata firmata una convenzione tuttora valida col Municipio di Lugano per l’utilizzo degli spazi abbandonati dell’ex Macello. “Fin dall’inizio si è trattato di una fucina di controcultura e lotte sociali: un luogo di produzioni artistiche indipendenti e popolari, azioni contro il razzismo, riflessioni su questioni di genere e orientamento sessuale, denunce e manifestazioni di solidarietà con varie realtà oppresse, e molto altro”: traiettorie intrecciate che hanno tessuto tutta la sua storia. “L’intento principale continua ad essere quello di sostenere e valorizzare le diversità all’interno di una società che le nega”.

Il fastidio della coscienza

Mentre la città intorno continua a consegnare spazi nelle mani della speculazione, il Molino rimane megafono e approdo per i diseredati del moderno. Con un occhio al locale e uno al globale, cercando le correlazioni tra i problemi e i legami tra le lotte, funge da coscienza civile, senza indulgenza verso chi detiene il potere, che critica con toni anche forti. Accuse a cui la controparte ribatte spesso deviando il discorso su questioni di ordine pubblico, legalità e permessi, screditando il valore del centro sociale e agitando lo spauracchio dello sgombero, per ‘ridare uno spazio pregiato a tutti i cittadini’: “Come se le migliaia di persone che lo frequentano non lo fossero. Il sostegno ampio e trasversale alla manifestazione dello scorso settembre dimostra quanto per molta gente questa realtà sia un punto di riferimento da difendere”.

I vertici e la base

Il corteo è stato organizzato dopo che la maggioranza del Consiglio comunale luganese, seguendo gli auspici del Municipio, ha adottato il messaggio per un concorso di riqualifica del sedime dell’ex Macello dove non sarebbe più prevista l’autogestione (con un rapporto di minoranza che invece la include). L’intenzione è di creare uno spazio per accogliere eventi multidisciplinari, attività di coworking e costudying, un caffè letterario con spazi ricreativi. “Sul nostro sito (www.inventati.org/molino, ndr) è pubblicato un documento del 2003 denominato Progetto Molino – presentato pubblicamente in conferenza stampa –, nel quale anticipiamo di quasi 20 anni l’idea di costruire una cittadella della solidarietà dal basso coinvolgendo altre associazioni. Il Comune ci accusa di non voler dialogare per trovare soluzioni condivise sull’autogestione, ma negli anni ci siamo seduti attorno a un tavolo innumerevoli volte rispondendo in modo propositivo alle domande sulla nostra necessità di spazi. Ai loro ‘vi faremo sapere’ non è mai seguito nulla e a rompere questo stallo da un giorno all’altro è la decisione del legislativo di stanziare 26,5 milioni per un progetto fotocopia calato dall’alto che ci esclude. Ma la questione fondamentale è: davvero i cittadini di Lugano vogliono vedere impiegati i loro soldi in questo modo? Si potrebbe interpellare la popolazione su come investire quei milioni sul territorio in progetti di pubblica utilità; per esempio piste ciclabili, l’accesso al lago, una lavanderia pubblica, un centro di prima accoglienza… In città non esiste una struttura che permetta alle persone che sono in strada di autodeterminarsi e nonostante ciò Lugano ha fatto una campagna vergognosa sull’accattonaggio senza che nessuno dei politici proferisse una parola. Come dicevamo in occasione del corteo vogliamo sperimentare un’altra città che cresca dal basso e che riconosca le minoranze”.

Libertà è partecipazione

Da spettatori a protagonisti: “La pratica dell’autogestione permette a chi lo desidera di mettersi in gioco e dare espressione a ciò che sente di portare con sé, di ridefinire una parte della propria vita in sintonia con le personali aspirazioni, alla ricerca di un’esistenza più soddisfacente”. L’ex Macello si pone dunque come terreno di formazione ed esplorazione di sé, e questo si rispecchia nella configurazione dei suoi spazi: dal piazzale, al giardino, alle sale per attività, concerti e prove; dalla ‘bettola clandestina’, alla cucina; dalla biblioteca, al locale cinema, all’atelier di serigrafia fino alla palestra popolare… tutti luoghi ricavati da un posto in cui si macellavano animali. “Quando siamo entrati era in condizioni disastrose, pieno di sangue. Chi attualmente parla di degrado avrebbe dovuto vedere com’era ridotto. Da lì, con le diverse capacità individuali e la collaborazione collettiva, abbiamo operato una graduale trasformazione da uno spazio di morte a uno spazio di vita. E tutti quelli che negli anni sono passati – dalle comete, a coloro che sono rimasti per più tempo – hanno contribuito a dargli forma, farlo evolvere, reinventarlo in dialogo con le mutazioni del presente. Questo sia a livello di idee che pratico, secondo le propensioni di ognuno: c’è chi ha allestito l’impianto elettrico, chi la cucina, chi ha rifatto i pavimenti, chi le isolazioni; chi spina la birra, scrive volantini, organizza concerti, pulisce i bagni e torna a casa alle prime luci dell’alba. Nonostante le difficoltà abbiamo sempre agito in autonomia; non vogliamo una ditta che venga a costruirci il palco, per dire; anche se ci mettiamo molto di più, vogliamo far capo alle nostre risorse. Non abbiamo mai beneficiato di alcun contributo pubblico, chiediamo solo di poter stare in un posto che non ci cada in testa o prenda fuoco”.

Acce$$ibilità

Come sancito dalla convenzione col Municipio, per gli spazi non viene versato nessun affitto; le bollette di luce, acqua e smaltimento rifiuti vengono invece regolarmente saldate con i soldi provenienti da entrate, cene e bar, che sono usati oltre che per le spese, per autofinanziare le attività e sostenere varie realtà e progetti – tra gli ultimi la costruzione di una scuola a Kobane, nel Kurdistan siriano. Il Molino non pesa dunque sulla collettività, e il fatto di non pagare l’affitto e di basarsi sul volontariato gli permette di praticare dei prezzi popolari e proporre numerose attività gratuite accessibili anche a chi non si può permettere i costi spropositati dei locali di Lugano, come capita a studenti, disoccupati, lavoratori precari, persone al beneficio di prestazioni sociali.

Identità meticcia

Le proposte hanno sempre spaziato tra molti ambiti, incrociando gli interessi e i gusti di una miriade di persone; nei volantini si legge di concerti hip hop, reggae, punk, metal, cumbia – e moltissimi altri sottogeneri e contaminazioni sonore –; conferenze su temi che vanno dagli Ogm alla Beat Generation, dal sistema carcerario al reddito di base incondizionato; appuntamenti fissi come la sagra del peperoncino ribelle e il torneo di calcio antirazzista. “Abbiamo fatto serate in cui l’età media era di 60-70 anni e altre dove era di 14-15, altre ancora miste; il Molino non è un centro giovani ma multigenerazionale. D’altra parte non abbiamo mai mirato a convincere tutti a partecipare; tramite i nostri canali diffondiamo le informazioni in modo che le persone sappiano cosa facciamo e come funzioniamo, ma c’è chi probabilmente non sarebbe al posto giusto qui ed è meglio che non venga; come i fascisti – che proprio non sono benvenuti – o chi ha atteggiamenti omofobi, sessisti o razzisti. Come dice Popper nel suo Paradosso della tolleranza, ‘difendere la tolleranza richiede di non tollerare l’intolleranza’. Dopodiché capita anche qui, come dappertutto, di dover talvolta gestire delle situazioni di tensione o conflitti; la sfida che ci poniamo, pur non riuscendoci sempre, è quella di affrontare questo tipo di questioni che possono essere legate ad abusi, sostanze e storie di disagio sociale, senza rientrare nelle dinamiche repressive come succede fuori”.

Leoni contro zecche

Che il tema del Molino divida e scaldi gli animi è riscontrabile ogni volta che se ne parla sui media, con una coda di commenti al vetriolo dei leoni da tastiera. “Diversa gente disinformata e che non è mai andata oltre la facciata ne ha timore, si immagina chissà cosa. Questo a causa di chi ha interesse a diffondere una visione distorta e negativa del centro sociale, come diversi politici e media che si attaccano ad ogni pretesto per criminalizzarci, decontestualizzano frasi per creare polemica, alimentando un clima di ostilità. Ci chiamano brozzoni, drogati, zecche, mantenuti. Al Molino c’è chi studia, chi (buona parte) svolge professioni di svariati tipi, chi vive altre condizioni esistenziali; ma a noi non interessa ribattere su questo piano di discorso che esalta il lavoro e riduce il valore dell’individuo alla relazione con la produzione capitalista”.

All’altro mercato

Ad alcuni il Molino dà fastidio anche perché è considerato come un concorrente negli affari. C’è però una grande differenza tra il centro sociale e la maggior parte degli altri posti di aggregazione ed è che questi sono principalmente luoghi di consumo dove si conservano ruoli ben distinti e dove non manca la componente di controllo sociale con telecamere e buttafuori che veicolano una falsa percezione di sicurezza. L’autogestione implica invece una compartecipazione, un insieme di persone che collaborano e si responsabilizzano per la riuscita di un comune progetto, che sia una serata, un’azione di protesta o un pomeriggio per bambini.
Non potendo prescindere dal contesto in cui è inserito, per questioni di necessità il Molino ha comunque dei rapporti economici con una parte del mercato capitalista che critica (per esempio, acquistando energia elettrica dalle aziende); tuttavia dove è possibile fa capo a una serie di esperienze alternative favorendo lo sviluppo di realtà cooperativistiche, solidali, rispettose dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Legami sparsi in tutto il mondo che sono linfa vitale e permettono di incontrare ed elaborare maniere di esistere sempre più libere da qualsiasi forma di prevaricazione.


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IL VOTO NO

A gestire il Molino è la sua assemblea che si riunisce una volta alla settimana, stabilisce l’ordine del giorno, discute e prende decisioni utilizzando il metodo del consenso: questo processo non contempla il voto e in mancanza dell’unanimità porta i presenti a confrontarsi fino al raggiungimento di una decisione condivisa che integri le differenze senza eliminarle. “È un funzionamento orizzontale in cui idealmente nessuno conta più di un altro, e che permette a tutti – indipendentemente da provenienza, diplomi, condizioni personali – di assumere un ruolo attivo, contribuire allo sviluppo delle situazioni e sentirsi partecipe nel decidere. Questo superando le logiche di maggioranza, competizione, vincitori e vinti, nell’ottica di gestire uno spazio che contenga tanti spazi”. Per tale motivo non esistono delegati, e il processo richiede modi e tempi che non sono quelli della politica degli scranni e della società dell’immediatezza.

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