Elogio della lamentazione

Il pensiero positivo va bene e certo non fa male a nessuno, anzi. Però, un po’ di sani mugugni ed esternazioni non hanno mai ucciso nessuno (e possono aiutare).

Di Mariella Dal Farra

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato nelle pagine de laRegione.

“Ecco il senso della vita: beh, non è niente di speciale… siate gentili con il prossimo, non mangiate i grassi, leggete un buon libro, fate passeggiate e cercate di vivere in pace e armonia con gente di ogni fede o nazione”. (Monty Python, 1983)

C’è un diritto fondamentale che dovrebbe essere inserito a pieno titolo nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, insieme a quello di poter sbagliare. È lo Ius murmurandi, il diritto al mugugno, ovvero la possibilità di lamentarsi, sbuffare e imprecare liberamente. Per un certo tempo lo è stato, un diritto, proprio nel senso giuridico del termine. Sancito nel 1300 dalla Magistratura dei Conservatori del Mare, antica istituzione genovese deputata a occuparsi della sicurezza del porto, il diritto al mugugno venne accordato per la prima volta ai marittimi camoglini, per poi estendersi ai camalli, gli scaricatori che si occupavano di vuotare – a spalla! – le stive delle navi. Nello specifico, i camalli potevano scegliere fra due forme d’ingaggio: “con mugugno”, percependo nove soldi per una giornata di lavoro, o “senza mugugno”, per un compenso di dieci soldi. Particolarmente significativo appare il dato secondo il quale la stragrande maggioranza dei lavoratori avrebbe optato per la prima forma contrattuale, preferendo dunque guadagnare un po’ di meno pur di esprimere il proprio malcontento durante lo svolgimento dell’ingrato compito. 
Una scelta che potrebbe apparire futile, non avendo mai provato di persona a vuotare la stiva di una nave, ma se lo facessimo ne comprenderemmo immediatamente il senso: lamentarsi aiuta a resistere alla fatica, al dolore, alla paura. Questi sentimenti così opprimenti che più o meno regolarmente ci toccano in sorte; questi due di picche servitici a sorpresa da una mano di carte invisibile e prodigiosamente sfortunata, c’è un solo modo per controbilanciarli: imprecare. Forte, se è necessario: a gran voce. Con passione, veemenza ed eventualmente disperazione. Fatto questo, ci rimboccheremo le maniche, ci metteremo all’opera e porteremo a termine il lavoro; ma prima, e anche un po’ durante, è opportuno lamentarsi. Anche se potrebbe risultare in controtendenza rispetto agli standard attuali, che individuano nel pensiero positivo un imperativo morale. 

Pensare bene

L’origine del positive thinking è di solito ricondotta allo psicologo Martin Seligman che, a partire dalla metà degli anni Novanta, ha iniziato a proporre un nuovo approccio alla salute mentale basato sul presupposto che quello tradizionale fosse troppo sbilanciato sugli aspetti patologici della mente umana. Seligman decise dunque che era giunto il momento di contrapporre al Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (la “Bibbia” degli psichiatri e degli psicologi clinici) un “contro-manuale” che illustrasse i punti di forza e le virtù del carattere (Character Strengths and Virtues, appunto, del 2004): sei caratteristiche congenite nell’essere umano – anche se presenti in vario grado a seconda del background e del sistema valoriale dell’individuo – che tutti possono e anzi devono coltivare, se vogliono (seriamente) essere felici. Queste virtù sono: la saggezza o conoscenza, il coraggio, il senso di umanità, quello di giustizia, la temperanza e la trascendenza. 
Per la definizione e l’eventuale traslazione del loro significato nel quotidiano rimandiamo alla ricca bibliografia di Seligman, che non a caso risulta essere il 31° psicologo più citato del secolo scorso (e promette bene anche per quello in corso…). La sua programmatica inclinazione a porre l’accento sugli aspetti più costruttivi della psicologia umana per perseguire attivamente il benessere ha fatto scuola, ed è degna di tutto rispetto. Più discutibili appaiono invece alcune semplificazioni un po’ spicce dei concetti da lui formulati, proliferate nel corso degli anni e banalizzate, spesso per fini commerciali, da aziende, agenzie di pubblicità e singoli professionisti. Che, tutti insieme, fanno un bel po’ di gente. 
Ed è così che, senza nemmeno accorgercene, a forza di sentirne parlare, abbiamo cominciato a pensare che, alla fine, se non siamo capaci di essere felici è soltanto per colpa nostra. Allora abbiamo deciso di correre ai ripari e di impegnarci (seriamente) nella costruzione della nostra felicità, appuntando alle pareti immagini “ispiratrici” e frasi motivazionali, allenandoci a cogliere i risvolti positivi di ogni situazione – anche la più nefasta – contando sul fatto che con la pratica tutto questo sarebbe diventato più facile. Ma per qualche motivo alcune cose si ostinano ad andare storte, mettendo (seriamente) alla prova la nostra capacità di mantenere un’attitudine “positiva”.

Affrontare le difficoltà

In realtà, diversi studi sembrano indicare come l’espressione delle emozioni e dei sentimenti a valenza negativa ne faciliti l’elaborazione, rendendo quindi più facile il loro superamento. E questo per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, quando una persona prova rabbia, paura o amarezza è naturalmente portata a modificare le condizioni che generano queste emozioni, ma se deve preoccuparsi anche di nasconderle, o reprimerle, non sarà libera di concentrarsi sul compito. Questa ipotesi trova riscontro nell’evidenza che la soppressione intenzionale delle emozioni determina un incremento tanto dell’attività cerebrale quanto della risposta elettrodermica e cardiovascolare. Secondariamente, considerato che le emozioni rappresentano un formidabile sistema di segnalazione che informa noi sulla valenza (positiva, negativa o neutra) di una certa situazione e, al contempo, informa gli altri su come stiamo, reprimere quelle negative significa precludersi la possibilità di attivare presso i nostri simili comportamenti di aiuto e supporto. Al contrario, essendo noi intrinsecamente relazionali, è proprio attraverso la condivisione e il rispecchiamento che riusciamo a comprendere i nostri sentimenti, estrarne un senso e “metterlo a reddito” in termini di crescita personale. Il che naturalmente non equivale a rovesciare su chi ci è vicino tutto quello che ci passa per la testa; significa piuttosto autorizzarci a esprimere ciò che sentiamo in una forma comprensibile all’altro, ciò che peraltro la rende più comprensibile anche a noi stessi.

Il bello di farcela

Sulla centralità del significato ai fini della realizzazione/soddisfazione personale è di recente uscito su Scientific American Mind un interessante articolo di Scott B. Kaufman, psicologo della Columbia University (“Forget Happiness, Find Meaning”, nov./dic. 2019, vol. 30, n. 6). Presentando alcune ricerche sperimentali su ciò che rende una vita “soddisfacente”, Kaufman afferma che non è la “felicità” ma il percepire la propria esistenza come ricca di significato a giocare il ruolo più importante. E la “significatività” è direttamente correlata alla frequenza di eventi ad alta intensità emotiva, sia positivi che negativi, che abbiamo vissuto. Il senso di realizzazione personale scaturirebbe quindi non tanto dal fatto che ci accadano solo (o prevalentemente) cose “belle”, bensì dall’esserci cimentati per vincere una paura, o una sfida, oppure per dirimere un conflitto, interno o esterno. E questo a prescindere, almeno in parte, dall’esito. “È molto comprensibile, se adottiamo la prospettiva della narrativa personale – spiega Kaufman –, la nostra storia di vita, il senso di chi siamo, sono fondati su un’accurata selezione di eventi significativi occorsi nell’arco della nostra esistenza. Gli eventi che consideriamo più importanti e che incorporiamo nella narrazione sono spesso anche quelli emotivamente più intensi. La catarsi indotta dalle esperienze ad alto coefficiente emotivo aumenta la probabilità che siano proprio questi stessi eventi a definire meglio chi siamo (e perché, ndr). Kaufman riconduce la sua argomentazione agli studi del celebre psicologo Abraham Maslow (1908-1970) sulla cosiddetta “peak experience”: una condizione di euforia quasi trascendente che spesso segue il superamento di una difficoltà o di un fallimento. “Questi dati forniscono un punto di vista alternativo all’attuale tendenza a considerare la calma e la tranquillità come le sole attitudini che consentano di condurre una vita ben vissuta. Di sicuro, la mindfulness, la meditazione e il coltivare un senso di armonia interiore sono efficaci per ridurre l’ansia, alleviare la depressione e aiutarci a tollerare il dolore. Tuttavia è l’intensità delle esperienze estreme che probabilmente ci definisce meglio. Alla fine del nostro percorso esistenziale ci guarderemo indietro e ricorderemo come più significative le nostre tranquille sessioni di meditazione oppure i momenti in cui, per scelta o per necessità, abbiamo scandagliato la profondità delle nostre emozioni, sentendoci intensamente, dolorosamente, vivi?”.
Ecco, questo forse è un momento adatto per chiederselo. 

TRISTE È BELLO (O QUANTOMENO PROFICUO)

Nel 2013 lo psicologo Paul Rozin ha pubblicato insieme ad alcuni colleghi un interessante articolo dal titolo “Felice di essere triste, e altri esempi di masochismo benigno” (Judgment and Decision Making, vol. 8, n. 4, pp. 439-447) nel quale indica, sulla base di una ricerca sperimentale, 29 attività “avversative” che suscitano piacere nella maggior parte delle persone. Fra queste guardare film thriller, contemplare dipinti che ritraggono persone tristi o sofferenti, ascoltare musica “deprimente”, mangiare cibo esageratamente piccante, leggere libri che narrano vicende strazianti e farsi fare un massaggio così energico da risultare doloroso (con l’idea che poi ci sentiremo meglio). Questi ricercatori interpretano il dato nei termini del piacere generato da sensazioni o emozioni spiacevoli vissute in un contesto di sicurezza, e cioè con la consapevolezza di poterle far cessare in qualsiasi momento.
Questa lettura tralascia però un aspetto importante della faccenda: il potere trasformativo della rappresentazione. Dare una forma – visiva, verbale, sonora o in altro modo comunicabile ad altri esseri umani – a ciò che sentiamo ci permette di condividerlo e quindi di tollerarlo. Karen Blixen scriveva: “Nessun dolore è insopportabile se lo metti in una storia”. Mentre per Hannah Arendt: “La storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi”. In caso di necessità, si cominci dunque a narrare.

 

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