Maurizio Grappa, l’uomo del caffé

La vita di un uomo che di mestiere rifornisce le macchinette del caffé aziendali. E molto altro.

Di Lorenzo Erroi

Il Personaggio
Maurizio Grappa è nato a Varese nel 1963 e vive a Cuasso al Piano, vicino a Porto Ceresio. Per mestiere rifornisce e pulisce le macchinette del caffè aziendali per Dallmayr. Ama viaggiare.

La ragazza in bikini mi fissa da anni con uno sguardo malizioso, ma non si muove mai. E soprattutto non invecchia. Forse perché è solo una gigantesca foto sulla macchina del caffè aziendale. Accanto a lei Maurizio Grappa – che già di per sé è una persona minuta, priva di atteggiamenti da maschio alfa – rischia quasi di scomparire. E sì che da qui passa due volte alla settimana, per riempire la macchinetta («col caffè in grani, macinato al momento dell’erogazione, anche se molti pensano che qui dentro sia tutto liofilizzato»). Io e i miei colleghi gli passiamo accanto con un sorriso, un saluto, ma interrompiamo a stento le nostre conversazioni; lui resta un personaggio un po’ misterioso, come il tecnico delle fototessere ne Il favoloso mondo di Amélie.

Non che Maurizio se ne lamenti, anzi: «Una delle cose belle di questo lavoro è proprio il contatto con le persone. Mi sento comunque rispettato, lavoro molto ma le giornate passano rapidamente, non come in fabbrica». Lo dice perché lui ha iniziato nei calzaturifici, a fare quei lavori ripetitivi col capo sopra che ti cronometra.

«Poi un giorno il padrone si è presentato con una bottiglia di cognac, ne ha versato un bicchierino a tutti e ci ha detto: ragazzi, la fabbrica chiude. Eravamo a Rancate, io mi ero appena sposato, ho cominciato a cercare altrove, passando per i calzaturifici anche tre volte al mese». Una volta, «mentre ero lì a cercare lavoro, è passato il tecnico a ricaricare le macchinette del caffè». Il seguito potete intuirlo.

Testimoniare

Adesso «sono 34 anni che faccio questo mestiere, all’epoca qua c’era ancora Il Dovere»; segue una settantina di apparecchi, da Giubiasco a Gorduno, si alza alle sei di mattina per passare la frontiera e a casa ci ritorna alle sei di sera. Il fatto che a occuparsi di caffè sia un Grappa è da anni occasione per mille battute – ‘l’Ammazzacaffè’, per dirne una –, «ma alla fine lo trovo simpatico; era peggio a scuola, quando mi prendeva in giro anche il bidello».

Maurizio è una persona mite, parla sottovoce e pesa ogni parola, trasmettendo all’interlocutore una certa serenità. Naturalmente bisogna essere molto forti, per essere miti in un mondo che spesso privilegia l’aggressività. E infatti Maurizio è anche tenace, non rinuncia a combattere per quello in cui crede: tanto che si è fatto quattro mesi di carcere pur di non partir militare, quando ancora in Italia non era ammessa l’obiezione di coscienza. Non se ne lamenta: «Certo, mancava la libertà. Ma avevo molto tempo per studiare». I testi biblici, s’intende: lui è Testimone di Geova, come sua moglie Lorella e la figlia Federica, che «ora sta studiando il punjabi per fornire aiuto spirituale ai tanti indiani in provincia di Bergamo».

Non è una gara

Non dev’essere facile convivere coi pregiudizi che ancora perseguitano i Testimoni, o con gli insulti che si beccano quando si porta casa per casa «la buona notizia di un Regno che verrà», per «aiutare già oggi le persone a vivere meglio»: «Alcune nostre sorelle le hanno anche buttate giù dalle scale». Maurizio però ci è abituato «già dagli anni della scuola, quando subivo le crudeltà tipiche dell’infanzia. D’altronde sarebbe successa la stessa cosa se fossi stato grasso o col nasone, sono cose che capitano. Ora va molto meglio». E poi c’è la soddisfazione di «quando riesci a dare una speranza alle persone più in difficoltà».

Lui non si sente svantaggiato in un mondo alla cui competizione esasperata ha scelto di rinunciare: «Anche sul lavoro, se per fare strada occorre tenere i gomiti alti, il rischio è di trovarsi in situazioni che ti divorano, e dove vieni sfruttato». Come quella volta in fabbrica: «Il padrone disse che Testimoni di Geova non ne voleva più, perché non facevano a gara a chi faceva più pezzi a cottimo. Ma a rubarsi il lavoro l’uno con l’altro, poi si finiva solo per esasperare i tempi di produzione». Nel suo mestiere, «le persone alla fine apprezzano un certo autocontrollo. Mi pare di riuscire a mettere gli altri a loro agio, e vado a letto tranquillo».

La ’solita‘ storia

Quando gli chiedo cosa lo spaventa nella vita, abbassa ulteriormente la voce perché non vuole suonare arrogante: «Non mi spaventa niente». Poi si aggiusta meticolosamente gli occhiali, e aggiunge: «Semmai, mi rattrista vedere che con la scusa dell’identità stiamo tornando indietro, ai tempi in cui si incolpava il ‘negro’ perché era bruciato il fienile. Stiamo demonizzando tutto quello che è diverso da noi». Una cosa che ogni tanto gli capita di vivere anche da semplice frontaliere: «Negli ultimi anni c’è qualche persona in più che ce l’ha proprio su con noi. D’altronde ci sono anche i frontalieri che prendono in giro gli svizzeri. Io penso che si debba andare oltre. Che l’uno aiuta l’altro».

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