‘Mamme in equilibrio’ e figlie ribelli: una testimonianza
La storia di Cecilia e della figlia Abigaille, per imparare che la perfezione non esiste ma non bisogna mai arrendersi
Di Sara Rossi Guidicelli/Redazione T7 (a cura)
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione
Fresco di stampa, “Mamme in equilibrio” è un manuale narrato in modo gioioso, che affronta la complessità dell’essere genitore, partendo in particolar modo dalla mamma. Con parti teoriche, piene di esempi, incoraggiamenti e totalmente privo di giudizi, il libro offre anche esercizi pratici e sei racconti di vita veri, tra cui quello di Cecilia che vi proponiamo in queste pagine. Nasce dal desiderio di Eveline Moggi (nell’immagine qui sotto, ndr), educatrice materna e formatrice, di dare corpo cartaceo alle sue esperienze di percorsi di mentoring e coaching familiare nel suo studio a Origlio. Sara Rossi Guidicelli le ha dato una mano nella scrittura, realizzando questo manuale da tenere pronto sul comodino.
Il racconto di Cecilia, 50 anni, mamma di Abigaille, 21.
«Sono diventata mamma per caso, ma quando l’ho saputo, ero felice. Appena inizia l’avventura, cominci a porti le domande sul tuo ruolo. Anche il senso di colpa nasce con la parola mamma. Ancora incinta, mi sono messa a leggere Intelligenza emotiva, di Thomas Goleman, ma a pagina trenta l’ho chiuso. Ho pensato: non sono pronta. Devo fare un percorso personale. Devo fare i conti con le mie difficoltà e i miei limiti. Devo migliorare me stessa, crescere. Ovviamente non ne ho avuto il tempo. È nata mia figlia, Abigaille. Mio marito è stato assente, posso dire che non c’è mai stato. Ha problemi psichiatrici che sono diventati impossibili da conciliare con la vita di genitore. Avere una bambina piccola in casa mi ha fatto capire che non potevo occuparmi anche di lui. Era o lui o lei, e la risposta era chiaramente una sola. Sono rimasta da sola con mia figlia, abbiamo vissuto insieme sempre, fino a poco tempo fa, quando ha preso il suo appartamento, ma ormai ha già vent’anni.
È andato tutto bene, io lavoravo, perché avevo solo il mio stipendio su cui contare, e Abigaille stava con le sue due nonne e con me. Era l’unica nipote ed è stata molto, molto amata. Mia mamma si preoccupava per lei, io pensavo che avesse solo bisogno di stare con altri bambini, di giocare, di fare una vita normale. Mia mamma diceva che bisognava usare il pugno di ferro quando i bambini non fanno come dovrebbero, io pensavo che la strada più giusta fosse la dolcezza. Però mi insinuava i dubbi nel mio agire istintivo.
Però mi sentivo sola
Come fai a sapere cosa è giusto, quando è il primo figlio? Per lavoro sono sempre stata responsabile di tante persone. Gestire il personale, anche a centinaia, è il mio mestiere. Lì mi sento sicura, non vacillo mai. Ma a casa, con la mia bambina, non ero mai sicura di me. Adesso penso che i nonni non dovrebbero interferire, ma allora non ero capace di dirlo a mia mamma. A un certo punto ho vinto i sensi di colpa e ho cominciato a uscire il venerdì sera. Andavo a ballare, mi sfogavo. Questo mi ha fatto bene. Se non stai bene con te stessa non puoi trasmettere serenità al tuo bambino. Con
lei, ricordo risate, complicità, disegni che facevamo insieme, le decorazioni di Natale, le sfilate di vestiti, i travestimenti. Proteggevo mia figlia: le dicevo ‘Papà sta bene, non può vederti perché lavora. Ho sbagliato. Volevo proteggerla dal dolore, ma le creavo un dolore più grande. Sono sempre andata da uno psicologo e quando l’ho cambiato, a un certo punto lui mi ha detto: ‘Tua figlia deve sapere che suo padre ha una problema psichiatrico’. Aveva poco più di undici anni; a me sembrava che ci fosse bisogno di un po’ di tempo, di preparazione. Ma lui mi ha messo fretta: ‘Non si può preparare nessuno a questo. Deve conoscere la verità su di lui altrimenti continua a idealizzarlo’. E così, Abigaille, a undici anni, ha scoperto che suo papà beveva. Che era fragilissimo. Che non sapeva neanche se voleva vivere.
© Shutterstock
E da quel giorno è diventato tutto difficile
Ho visto una saracinesca calare sugli occhi di mia figlia. Da quel momento sono iniziate le provocazioni, le assenze da scuola, le fughe. Si truccava e a vederla sembrava avesse 18 anni. Provava rabbia e cercava di rendermi arrabbiata quanto lo era lei. Era una ragazza intelligente, ma era completamente fuori di testa. Praticamente, a quell’età ha smesso di andare a scuola. Non avevo più il controllo su di lei, a volte non tornava a casa nemmeno la notte. Sono subentrati la commissione tutoria, gli assistenti sociali, i giudici, non so quante volte ho chiamato la polizia; io ho chiesto aiuto a tutti. E invece avrei solo dovuto ascoltare il mio istinto. Ma in quei momenti, quando sei disperata, quando le cose non vanno come te le aspettavi, pensi che sei tu a essere sbagliata. Pensi che devi lasciar fare agli altri, agli esperti, ai professionisti, agli esterni. Ma solo tu sei l’esperta di tua figlia, nessun altro. La cosa che più mi è pesata è l’aiuto che lo Stato mette in atto quando il minorenne in età scolastica non si presenta a scuola. Ci sono dei protocolli, quindi ogni tanto mi chiamavano per fissare un appuntamento, sempre in orari d’ufficio e ogni volta dovevo prendere libero dal lavoro. Con tutte quelle assenze rischiavo anche il posto di lavoro. Non mi aiutavano veramente, non capivano. Mi dicevano che Abigaille aveva bisogno di una lezione, di un centro per minorenni ribelli. Le abbiamo provate tutte.
Per fortuna, io non ho mai smesso di fidarmi di lei. Sapevo che, anche se scappava di casa, non fumava, non beveva e non si drogava. Si ribellava e basta. Urlava il suo malessere così, mandandomi fuori di testa. Solo per questo quasi sempre riuscivo ad addormentarmi la sera e non sono scoppiata del tutto. Però non l’ho mai picchiata, perché non so quanto male avrei potuto farle.
Piano piano ho capito: ero su una falsa pista
Tutti sembravano credere che il ruolo di un genitore è di dire al figlio cosa sia giusto e cosa no. E invece non è così. L’ho capito adagio, in questi anni disperati: il genitore non ha la verità in mano, deve piuttosto chiedersi cosa sia giusto per suo figlio. Ma cosa sia giusto davvero. Non prendere i figli di petto, con l’ansia di sgridarli per quello che crediamo sia sbagliato. Possiamo solo ricordar loro le regole che abbiamo deciso. E ascoltarli. Io non sono sempre stata brava ad ascoltare. Abigaille mi ha detto tante cose, ma non le ho sentite tutte. Il mio compito, ho capito, era accettare che mi fosse nata una figlia molto diversa da me. Dovevo solo staccarmi dal filmino rosa che mi ero fatta sul rapporto con i figli. È come la frase di Max Frisch sugli emigranti, che volevamo braccia e sono arrivati uomini: io mi aspettavo un figlio eccezionale e invece mi è arrivato un bambino vero. Abigaille aveva il diritto di sbagliare quanto voleva. La sera le dicevo: non esci. La mattina le dicevo: vai a scuola. E continuamente dovevo dirle: hai trasgredito.
I paletti glieli metti prima ai figli, da zero a sette anni. Se quel lavoro lo hai fatto, dopo non puoi più piegarli, puoi solo lasciarli arrivare al limite, al loro, al tuo. Puoi sorvegliarli da lontano. Ributtargli sempre le loro responsabilità addosso. Fargli capire che c’è un limite a tutto, anche alla mamma. Io mi ero sentita poco rispettata, avevo preso sul personale i suoi comportamenti. E invece lei sfidava me perché ero il suo punto di riferimento, mi gettava addosso il suo problema. Era un suo problema, poi l’ho capito, adesso lo so. A un certo punto un insegnante mi ha detto: Cecilia, tua figlia a scuola non viene. Meglio che faccia un apprendistato. Cosa ne pensi? Mi sono arresa. Perché mai i figli dovrebbero studiare? Perché lo dice la storia di Pinocchio? No, Abigaille non era Pinocchio e soprattutto io non ero Geppetto.
Non è facile. I ragazzi così non li vuole nessuno. Quelli difficili, che non ti guardano in faccia, o che ti guardano troppo negli occhi, quelli che non hanno mai aperto un libro, che hanno piercing e tatuaggi dappertutto, la cresta in testa. Non era facile trovare un posto di lavoro. Però ce l’ha fatta. E a lavorare era bravissima. In fondo, a lei le regole piacciono. Ce l’ha fatta e ha continuato a formarsi. Adesso fa la militare di professione… Ho fatto bene a fidarmi: pensiamo sempre che i bambini siano fragili, che siamo noi quelli forti, ma in realtà sono loro che smuovono le montagne. Io sono riuscita a mettere da parte la mia educazione e per me è stata la cosa più difficile. Dovevo astrarmi da ciò che ero, da ciò che ritenevo giusto. Era un salto nel buio. Era il millesimo tentativo di trovare una strada che mi riportasse a lei, alla mia bambina.
Ho regolato molti conti con me stessa
E alla fine sono riuscita anche a terminare quel libro, quello sull’intelligenza emotiva di Thomas Goleman. La nostra storia mi ha insegnato tantissimo. Ora mi conosco. Sono più felice. Penso che ho una figlia in gamba, anche se aprire un libro guai. Perché quando parliamo di cose importanti, lei usa la sua testa e basta. Non si fa condizionare da nessuno. Non è debole. È lei stessa. Grazie a tutto questo capisco meglio anche molte delle persone con cui lavoro. Mia figlia mi ha insegnato questo: capire cosa sia un bravo figlio. Si pensa che un bravo figlio sia quello che fa ciò che dice la mamma? Ma non è piuttosto quello che ha il coraggio di urlare ‘Questa vita è mia e voglio viverla io’? Ai figli puoi solo dare i mezzi per capire le cose. E far loro intuire che dietro a ogni aspetto del mondo c’è un universo e l’importante è esserne curiosi. Ciò che un genitore, fin dal primo giorno, dovrebbe cominciare a estirpare dal suo cuore, è l’aspettativa. Dovrebbe rendersi conto che il figlio non è suo ma è di se stesso.
I figli poi ti danno riscontro a modo loro. Ieri sera Abigaille era a casa mia a cena, poi se ne è andata e alle undici, quando già dormivo, mi ha mandato un messaggio. Ti amo, mamma. Non mi hai mai mollata. Non la scambierei con le figlie brave, quelle che vanno a scuola. Loro forse non mi avrebbero messa in discussione. Una figlia così difficile è un’opportunità straordinaria. Per nessun altro ti butteresti dal balcone, per nessun altro tocchi te stesso così profondamente. Per nessuno che non sia tuo figlio, cerchi così tanto di migliorare. Non vorrei nessun’altra figlia, anche se in parte lei mi ha uccisa. Non ne vorrei nessun’altra, perché non sarebbe lei. Io voglio solo la mia Abigaille, così com’è, una che cerca di stare a galla come tutti noi. Sì, se dovessi dire qualcosa a mia figlia sarebbe: grazie»