Claudio Rivellini. ‘Vi racconto il mio Covid’
È stato fra i primi ricoverati alla clinica Gavazzeni di Bergamo, nella zona in Italia più colpita dalla pandemia. Quando del virus quasi nulla si sapeva
Di Cristina Pinho
Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.
Nel mese di marzo del 2020 nella provincia si sono contati in totale oltre 5’400 morti, il 568% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Alcune comunità hanno perso improvvisamente un’intera generazione di anziani, che se ne sono andati senza commiato nella totale solitudine. Impossibilitato a continuare la sua professione, Claudio ha potuto anticipare il suo pensionamento, ma quello che ha vissuto non potrà mai dimenticarselo.
Tra le immagini della prima ora che più hanno segnato una crepa nella speranza collettiva di arginare in fretta la pandemia, c’è quella dei mezzi dell’esercito italiano carichi di bare incolonnati lungo le strade di Bergamo. Trasportavano verso i crematori di altre località le salme delle vittime di coronavirus perché il cimitero monumentale cittadino non aveva più spazio per loro. Erano giorni spettrali nella provincia lombarda, in cui persino le campane avevano smesso di suonare per i morti; sarebbero dovute andare avanti per ore. La fotografia risale al 18 marzo 2020 e molte di quelle bare, prima che finissero sui camion, le ha viste passare davanti alla portafinestra della sua stanza d’ospedale Claudio Rivellini. “I primi giorni era un continuo viavai di ambulanze della Croce Rossa. Poi è iniziato anche quello delle agenzie funebri. Sono scene che mi ripassano spesso per la mente – dice con un’oscillazione di turbamento nella voce –, non le scorderò mai”.
© Ti-Press / Pablo Gianinazzi
Claudio Rivellini è stato ospedalizzato per tre settimane, riportando due perforazioni polmonari e gravi danni all’apparato respiratorio che lo hanno costretto a un radicale cambiamento di vita.
Tutto iniziò così…
Quali primi sintomi Claudio ha accusato un herpes che andava estendendosi sul viso, un forte raffreddore e il 17 febbraio è sopraggiunta la febbre. “Ho chiamato il mio medico che mi ha prescritto la Tachipirina, ma la temperatura non accennava ad abbassarsi, così mi ha dato un antibiotico”. Due settimane più tardi si è sentito meglio, ma poco dopo ha cominciato a far fatica a camminare: “Ero esausto come se avessi finito tutte le energie. Poi il respiro si è fatto affannoso e mi è venuto un forte dolore al costato. Allora mi sono recato al Pronto soccorso”. Sul posto gli è stato dato un antibiotico più potente, ma visto il sovraccarico della struttura lo hanno mandato a casa dicendogli “hai 55 anni, sei forte e puoi curarti da solo”. Due giorni dopo, però, la situazione è precipitata. “Ho dovuto chiamare l’ambulanza perché non ce la facevo più dal dolore. Non riuscivo a stare seduto né sdraiato, mi piegavo sulle ginocchia dal male”. In ospedale è arrivato il 3 marzo alle dieci di sera ed è stato ricoverato il giorno successivo all’una del pomeriggio. “Nel frattempo hanno aperto un ambulatorio privato di un medico e mi hanno lasciato lì perché non c’era posto. Per farmi spazio in reparto hanno liberato un magazzino smontando degli scaffali e ci hanno messo dentro un letto. Nei corridoi c’era un casino pazzesco, sembrava un campo di battaglia. Era impressionante”.
© Ti-Press / Pablo Gianinazzi
Lʼentata dellʼOspedale Maggiore di Lodi, una cittadina di circa 44mila abitanti.
In ospedale
Nella struttura sanitaria Claudio ha trascorso due settimane in preda a lancinanti mali. “Tutti i giorni mi davano 7-8 antidolorifici in vena perché non riuscivo a stare fermo a causa della polmonite. Non ho mai provato nulla del genere in tutta la mia vita, immagino quanto sia devastante una sofferenza simile per gli anziani. Durante due mesi ho dormito seduto perché non riuscivo a sdraiarmi a causa del male localizzato in due punti del polmone destro, dietro in basso e davanti vicino al cuore”. I posti in cui gli hanno riscontrato delle perforazioni polmonari.
L’atmosfera che si respirava nella struttura era surreale e angosciante. “Mi trovavo completamente isolato, ero in contatto con la mia famiglia solo tramite videochiamata, mia moglie poteva solo passare a lasciarmi i panni lavati in portineria. Gli infermieri e i dottori erano bardati da cima a fondo e sembravano degli astronauti”. Di tutta la situazione, ciò che ha colpito particolarmente Claudio è stata l’impreparazione della struttura sanitaria, presa alla sprovvista da una crisi senza precedenti. Analogamente agli ospedali vicini, mancavano medicinali, ventilatori, dispositivi di protezione per il personale sanitario. E quest’ultimo era esausto per i lunghissimi turni ed emotivamente molto provato. “Però si impegnavano tutti in un modo incredibile. Vedevo infermieri e addetti alle sale operatorie che facevano le pulizie. Sono stato curato bene, ma senza dubbio l’organizzazione della struttura non era pronta a un evento del genere”.
© Ti-Press / Pablo Gianinazzi
Una veduta esterna dellʼOspedale di Codogno, comune di 16mila abitanti.
Finalmente fuori
Una volta dimesso, per Claudio la normalità non è più ripresa come prima. Il giorno in cui è tornato a casa, salire nove scalini gli è parso come scalare l’Everest. “Da quel momento ho passato altri 15 giorni chiuso in camera in completo isolamento. Mia moglie mi portava da mangiare davanti alla porta e quando andavo in bagno disinfettava tutto con l’ammoniaca”. Al termine della quarantena dovevano passare a fargli il tampone “ma gli addetti erano così impegnati che sono dovuto andare io in ospedale. Al rientro ho ricominciato con la febbre e il mal di polmoni. Per fortuna ero negativo, ma il dolore si è affievolito solo assumendo degli oppiacei”. La malattia lo ha lasciato con un polmone più piccolo a causa di numerose ischemie. Spesso gli fa male dopo gli sforzi, compiendo determinati movimenti o con i cambi di tempo bruschi. “Sono sempre stato uno sportivo, facevo competizioni in mountain bike, gare di corsa, montagna, palestra, e non ho mai avuto nessun problema di salute in tutta la mia vita. Poi è arrivata questa mazzata”. Una volta guarito dalla polmonite, la stanchezza, che definisce devastante, è rimasta il principale problema. “Adesso, per fare una salita che prima percorrevo in 25 minuti, ci impiego un’ora. La prima volta che ho fatto una camminata mi sono riempito nuovamente di herpes. E in due mesi sono calato di una decina di chili, che gradualmente per fortuna ho ripreso. Ma la mia condizione fisica è molto cambiata”.
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Simona Ravera, infermiera di Cure intense, attiva durante la quarantena dellʼOspedale di Codogno durante la prima ondata dellʼepidemia di Covid-19.
Non era un film
Le conseguenze del coronavirus hanno comportato anche la fine della sua vita professionale. “Ho dovuto lasciare il mio lavoro. Facevo l’attrezzista di stampi nelle macchine a vapore ed era impensabile tornare a svolgere quell’attività con la mascherina a più di 100 gradi e alzando pesi. La mia fortuna è che mi mancava un anno e mezzo prima di andare in pensione e sono riuscito ad anticiparla. Fossi stato in una condizione diversa non so come avrei fatto”. La testimonianza di quanto capitatogli, Claudio l’aveva già affidata ai social media in quelle settimane concitate. “Sono state le mie figlie e i miei nipoti a chiedermi di raccontare la mia storia e renderla pubblica perché all’epoca ancora in molti non si rendevano conto della gravità della situazione. Nella zona in cui abitiamo le nostre vite sono state profondamente sconvolte dalla presenza diffusa della malattia e della morte, ma in altre parti la situazione era ancora abbastanza blanda e in tanti minimizzavano gli effetti del virus. C’era perfino chi diceva che i camion di Bergamo erano solo una montatura usata per fare terrorismo. Per questo ho voluto condividere la mia esperienza”.
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Simona Ravera, infermiera di Cure intense, attiva durante la quarantena dellʼOspedale di Codogno durante la prima ondata dellʼepidemia di Covid-19.
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Simona Ravera, infermiera di Cure intense, attiva durante la quarantena dellʼOspedale di Codogno durante la prima ondata dellʼepidemia di Covid-19.
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Annalisa Malara, medico anestesista rianimatore che ha scoperto il primo caso diagnosticato dʼEuropa allʼOspedale di Lodi infrangendo il Protocollo medico italiano.
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Stefano Paglia, direttore generale del Pronto soccorso dellʼOspedale di Lodi, ha vissuto in prima linea la prima ondata Covid-19 diagnosticata in Europa, trasformando il suo ufficio in una brandina per riposare.
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Massimo Lombardo, direttore generale degli ospedali Civili di Brescia, già direttore dellʼOspedale di Codogno durante la prima ondata di Covid-19, in seguito promosso di ruolo per la buona gestione.