Inebriati e persi nelle ‘non cose’

Stiamo smettendo di vivere il reale buttandoci a capofitto nel virtuale: preferendo l’inconsistenza alla materialità
Di Fabiana Testori
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Stiamo smettendo di vivere il reale buttandoci a capofitto nel virtuale: dall’ipertrofica Ai che supplisce il nostro pensiero, ai rapporti sentimentali, viepiù filtrati da app che riducono l’incontro a mero fatto di consumo, finanche a dati e informazioni che ci paiono l’aspetto centrale della nostra esistenza. Del resto, il filosofo Byung-Chul Han, teorico del concetto delle ‘non cose’, lo ha detto, o meglio, scritto: “Da sole, le informazioni non illuminano il mondo. Anzi possono oscurarlo… il caos informativo ci scaraventa in una società post-fattuale che pialla la differenziazione tra vero e falso”.
Quand’è che abbiamo smesso di toccare le cose, le persone, il mondo che ci circonda? Quando abbiamo disimparato a creare, a comporre, a modellare delle cose reali, materiali, vive? Quando le non cose hanno cominciato a prendere il sopravvento nella nostra vita, riuscendo a catturare gran parte della nostra attenzione e del nostro tempo? Siamo forse arrivati al punto di conferire a esse la gestione del nostro quotidiano, di noi? Direte fantascienza? Non lo è. Si tratta del nostro tempo, del nostro oggi. C’è stato un momento in cui abbiamo scelto le non cose con consapevolezza, sicuri che ci avrebbero (e per molti versi, effettivamente, ci hanno) semplificato la vita. Sembra però sempre più evidente il fatto che siamo incapaci di gestirle con coscienza e questo, alla lunga, potrebbe diventare un problema.
Dai ‘non luoghi’ alle ‘non cose’
Tanti anni fa, quando ancora frequentavo l’università, seguii un corso sulle città europee e sull’importanza dell’impronta culturale nel forgiarne l’identità, oltre che l’architettura e l’urbanesimo. Non ricordo molto, ma so che analizzammo a lungo i luoghi della memoria, caratteristici di gran parte delle città europee che, appunto, per carica di significato e di storia ne avevano quindi plasmato non solo le strade, ma anche il carattere. Aspetti, ci disse il professore, in evidente contrasto con i non luoghi, espressione introdotta dall’antropologo francese Marc Augé nel 1992 riferendosi agli spazi architettonici e urbani di utilizzo transitorio, pubblico e altamente omologati e nei quali l’uomo contemporaneo viveva (e vive tutt’oggi) per tempi significativamente lunghi, ma non più riferiti a una struttura sociale organizzata in grado di favorire rapporti durevoli. Infatti, rappresentando la tipica espressione delle società globalizzate i non luoghi sono privi di radicamento al contesto, alle tradizioni e alla storia. Fra i non luoghi per eccellenza troviamo aeroporti, stazioni ferroviarie, centri commerciali, supermercati, svincoli autostradali, parcheggi, stazioni di servizio, impianti sportivi, alberghi, villaggi turistici, ma anche campi di accoglienza per profughi e così via.
La definizione di Augé risale agli anni Novanta, un tempo che oggi sembra preistoria e, infatti, dai non luoghi ci siamo spinti molto oltre, aggiungendo altri non, depredando e svilendo il tangibile, ciò che presuppone il contatto, la materia e inaugurando l’epoca delle non cose.
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Tutto in una nuvola… inconsistente
Dal reale al virtuale
Non capita spesso, ma a volte avviene, che un filosofo possa ottenere la stessa fama di una superstar. Si tratta del caso di Byung-Chul Han, filosofo e teorico culturale di origine sudcoreana residente in Germania, i cui saggi sono ormai conosciuti in tutto il mondo in quanto abile osservatore e traduttore del tempo presente, della nostra società in perenne burn-out, del nostro quotidiano digitale.
Han ha fatto un passo in più rispetto al compianto Zygmunt Bauman (famoso sociologo e filosofo polacco), interprete della postmodernità e autore della celebre definizione di “società liquida”, intuendo come oggi la società e le cose non abbiano proprio più nessuna forma, né solida, né liquida, semplicemente “non siano”.
Byung-Chul Han è autore di numerosi saggi, molto popolari anche fra le generazioni più giovani, fra cui: La società della stanchezza (2012), Eros in agonia (2013), Psicopolitica (2016), L’espulsione dell’Altro (2017), La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite (2021) e, anche, appunto, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (2022).
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Byung_Chul Han
Un mondo inafferrabile e spettrale
È stato Han a introdurre il concetto di non cose per descrivere la nostra realtà iperconnessa, dove il flusso costante di informazioni e di dati ci ruba l’attenzione e allo stesso tempo ci destabilizza, lasciando sullo sfondo il potere (concreto) delle cose tangibili. “Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud. Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso e spettrale” ci dice il filosofo sudcoreano, ed è difficile contraddirlo quando aggiunge: “Le nostre ossessioni non sono più indirizzate alle cose, bensì alle informazioni e ai dati.
Oramai produciamo e consumiamo più informazioni che cose. C’inebriamo con la comunicazione. Le energie libidiche abbandonano le cose e si lanciano sulle non cose. La conseguenza di ciò si chiama infomania. Oramai siamo tutti infomani. Il feticismo degli oggetti appartiene probabilmente al passato. Stiamo diventando tutti dei fanatici delle informazioni e dei dati. Si parla addirittura di datasexuals.
Paradossalmente, questo flusso costante di notizie e notifiche non ci consente però di accedere a nessun sapere: “Da sole, le informazioni non illuminano il mondo. Anzi possono oscurarlo… il caos informativo ci scaraventa in una società post-fattuale che pialla la differenziazione tra vero e falso. L’efficacia sostituisce la verità”, perché “… la verità è impegnativa. Quando un’informazione scaccia l’altra, non abbiamo più tempo per la verità”.
Il saggio di Han è denso, ricco di riflessioni, disturbante nella sua veridicità, poiché mette il dito in quella piaga che è diventato il nostro assurdo modo di vivere. Siamo passati dalle cose (la materia, le persone, le comunità, il costruire, il preparare, il condividere), alle non cose, le quali hanno essenzialmente forma digitale e quindi inconsistente. Siamo passati dal possesso all’esperienza: “Oggi non vogliamo più legarci né alle cose, né alle persone. I legami sono inattuali. Sminuiscono la possibilità di fare esperienza, ovvero la libertà nel senso consumistico del termine”.
Siamo arrivati al punto di delegare allo smartphone (non più semplice telefono) infinite sfere della nostra esistenza: “L’indice che ordina merci o cibo trasferisce giocoforza il proprio habitus consumistico in altri ambiti. Tutto ciò che tocca assume la forma di una merce. Nel caso di Tinder, si degrada l’Altro a oggetto sessuale. Depredato della propria alterità, anche l’Altro diventa consumabile. Nella comunicazione digitale, l’Altro è sempre meno presente. Mediante lo smartphone ci ritiriamo in una bolla che ci protegge dall’Altro. Nel quadro della comunicazione digitale spesso scompare anche l’atto di chiamare”. Siamo passati dalla fotografia analogica, che tenevamo fra le mani, conservavamo e che nel suo essere materiale, cosa, garantiva il ricordo, al selfie, la fotografia digitale, l’immateriale di impronta narcisistica e quindi una non cosa per eccellenza.
Edito da Einaudi 2022
Assenza di pathos
Un intero capitolo del saggio Han lo dedica all’intelligenza artificiale e alla sua mancanza di pathos: “Il pathos è l’inizio del pensiero. L’intelligenza artificiale è apatica, vale a dire senza pathos, senza passione. Essa calcola”. Legare le sue riflessioni in proposito alle immagini della cerimonia di insediamento del nuovo presidente statunitense Donald Trump, in cui era presente in corpore l’intero gotha tecnologico e del mondo dell’intelligenza artificiale (fondatori di società commerciali che valgono triliardi di dollari) deve certamente farci riflettere (e forse rabbrividire) sul futuro che ci attende.
Restare radicati nel vivo
Quale parte di noi intendiamo ancora sacrificare agli algoritmi? Cosa deve imprescindibilmente rimanere privato? Su cosa non siamo disposti a trattare? Che valore ha la verità?
Dipende solo da noi, dalla nostra capacità di rimanere radicati nella realtà, nel concreto, nella terra e anche nel sangue, in tutto ciò che è vivo. Toccare le cose e gli altri (e non solo gli schermi) ci ancora al mondo, perché rappresenta il gesto essenziale alla conoscenza, all’esperienza e alla relazione affettiva.
Lo spiegava già il filosofo presocratico Anassagora, di come il toccare (e quindi l’intelligenza umana) passi attraverso le mani: “Fra tutti gli animali, il più intelligente è l’uomo perché ha le mani”. Infiniti secoli dopo di lui, Hannah Arendt, filosofa e storica tedesca fra le più influenti del Novecento (e tutt’oggi referenza e consolazione durante questi tempi matti), ha ribadito il concetto: “Le cose del mondo stabilizzano la vita umana”, ci tranquillizzano insomma, ci permettono di vedere, di osservare e, soprattutto, di capire. Solo le cose e non le non cose ci consentono di collocarci fra cielo e terra. Non scordiamocelo.