Anima, quo vadis?

Nel vuoto la mappa ci può condurre, basta fidarsi, non cadere nell’angosciosa premura. Come potremmo sennò incontrare l’amore, l’amicizia, la fratellanza
Di Matteo Beltrami
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Errare, o andare per via senza meta, è una rubrica di racconti. È un gioco con il vuoto, in cui tacciono le certezze, i dati, le cronache, ma parlano i silenzi, gli sbagli, il dietro dell’angolo che non svoltiamo. L’invisibile cessa di essere mostruoso oppure, come unica alternativa, ridicolo. Errare poi è un verbo che suona, facciamo finta che sia solo un fruscio, al massimo un sentore. Errando catturo delle immagini. Ogni cosa mi risulta tragicomica e questo è il carattere di Errare, forse l’unica patria che gli è concessa.
Se osserviamo al microscopio un uovo fecondato, vediamo nel tuorlo un minuscolo puntino rosso palpitante: è il principio di un cuore. Il ritmo precede l’organo. Il cuore esiste grazie alla volontà di battere, che lo ha formato perché ne sia lo strumento.
Alejandro Jodorowsky
La spinta interiore del cosmo
Il pellicano porta dentro una forza occulta. Una mappa geografica antica quanto la scoperta dell’anima. È sgualcita per via di tutte le traversate, ma funziona. Non è che il pellicano decida di nidificare su una riva attorno al delta del Danubio, affacciata sul Mar Nero. Lui non sa che quello è il Danubio e non conosce il nome di quel mare che lo nutre e lo sferza, fra il vento, la spuma e le bombe delle navi da guerra.
E noi umani possiamo tuttalpiù ammirare commossi la bellezza di quella che ci appare come una visione salvifica, una forma di resistenza, la sua migrazione poetica, ma il pellicano non ci considera. Esiste per lui una conduzione eterea, una bussola interiore che lo guida in punti precisi del globo, a incontrare l’amore, la morte, e poi ancora l’uno e l’altra.
E io non lo so se il pellicano abbia o meno fiducia in quella forza che lo accompagna segretamente. Non credo che la fiducia sia un concetto che lo abiti. Eppure migra per migliaia di chilometri e si posa esattamente lì, dove è giusto.
Forse quella spinta interiore è il ritmo del cosmo e noi ne siamo i preziosi strumenti. Siamo come una miriade di piccoli magneti che attraggono e respingono senza nemmeno accorgersene, tramite manovre sottili, sempre nel tentativo costante di muoverci verso ciò che ci chiama, di farci incontrare esattamente ciò di cui abbiamo bisogno, anche a migliaia di chilometri, anche a decine di anni. Non confondiamoci, nei nostri vagabondaggi non troviamo quasi mai quello che crediamo di meritare, quelle sono cose che riguardano le maschere. Le cose che veramente contano sono quelle che necessitiamo per evolverci, tutto il resto è mero carosello.
Come quel tizio che ho incontrato nell’osteria di via Porta Palatina. Aveva un gomito posteggiato sul bancone, fra i calici vuoti. Si parlava del più e del meno per via del vino e della bolgia tutta attorno, che ci teneva vicini.
“C’è una finestra proprio sopra il naso della statua della libertà. Ero affacciato lì e guardavo giù un po’ spaesato. E lì sento parlare il dialetto di casa mia. Mi giro e c’era mia moglie, che non la conoscevo ancora, ma tutti e due abbiamo capito subito che roba strana stava capitando e ci siamo innamorati”. Mi dice. “Bello. Ma cosa ci facevi a New York?”. “Avevo trovato un nuovo lavoro, ma ho scoperto che era pieno di nemici. Ero salito sulla statua perché in sei mesi non ci ero mai stato. Volevo dare un’occhiata prima di tornare in Europa, mi ero licenziato”. “Nemici?”. “Sì, gente infida. Ho preferito andarmene”. “E ora?”. “Ah, sono passati trent’anni, ora sono qui con te, che non so come ti chiami”.
E poi mi sono messo a pensare con lo sguardo che galleggiava fra una canzone di Capossela e l’odore di stracci bagnati, di acciughe al verde e di stufa. Mi sentivo a casa, lì con quel tizio senza nome. Strano.
La capacità di vuoto
Assorti come siamo dall’inesauribile necessità di riempirci la testa sempre di nuove visioni di noi, progetti, mansioni, idee, non ci accorgiamo della graziosa puntualità degli incontri che contano, quando siamo arresi, calmi, capaci di vuoto. Nel vuoto la mappa ci può condurre, basta fidarsi, non cadere nell’angosciosa premura. Come potremmo sennò incontrare l’amore, l’amicizia, la fratellanza, una nuova passione a seimila chilometri di distanza, in un giorno che ci pare qualunque, dopo che per anni ci siamo arrovellati le viscere e delusi vicendevolmente, nuotando come pesci rossi dentro al bar sotto casa?
E allora mi sono messo a pensare che stando allo stesso principio, forse anche lo sconosciuto che abbiamo di fianco in ascensore è stato sospinto fino a noi dal cosmo. E noi fino a lui. Se la mappa di un altro si affianca alla nostra è senz’altro perché hanno qualche elemento evolutivo da scambiarsi, no? Dunque ci dovremmo parlare per davvero, anziché tacere e fissarci le scarpe, o al limite fare commenti sul clima? Boh.
Sono uscito dall’osteria che c’era una luce calda e confortante in tutto il cielo. Ho pedalato a vanvera per la città, provando la dolce sensazione di trovarmi nel posto giusto. Arrivato in Piazza Madama ho appoggiato la bicicletta al muro e sono entrato nel solito banglino per comprare la cicoria. “Capire francese?”. Mi fa subito il titolare, ometto cordiale e aguzzo del Bangladesh. Me lo dice come se mi aspettasse, indicandomi con il mento due anziani turisti con un po’ di gobba, le bocche aperte e i palmi rivolti verso l’alto. Gli ho fatto di sì con la testa e mi sono messo a tradurre. “Pomodori. Cetrioli. Uova”. “Ah. Ok. Dici loro che sono vestiti male”. Scherza Bangladesh. “No, no”. Ridiamo. Ridono anche i francesi, che non hanno capito, ma hanno trovato gli ingredienti per la loro insalata mista.
Compro la cicoria e me ne vado fra un ciao e un oruàr.
“Sarà poi vera quella cosa della forza occulta che ci sospinge tutti nel rispetto di un disegno superiore?”. Domando prima di sparire oltre l’uscio.
“Eh?”. Mi risponde Bangladesh.
“Il pellicano e via dicendo”.
“Pellicano? Tu fumato droga? Io ti capire meglio se parlare francese!”.
“Ma tu a tua moglie dove l’hai conosciuta?”.
“Se per parlare di moglie meglio che tu vai. Tu arrivato in momento esatto, fai stessa cosa ora, levi da palle con timing perfetto”.
Ci siam fatti un’altra ghignata e son tornato a casa.
© Matteo Beltrami