Kazakistan – parte seconda. Giochi Nomadi e identità

Ci siamo ritrovati nel bel mezzo della costruzione nazionale del Paese dell’Asia centrale

Di Sara Rossi Guidicelli

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

Il Kazakistan, per decenni, è stato parte dell’Unione Sovietica che lo ha convertito in una grande distesa di piantagioni di cotone, imponendo lingua, alfabeto e confini. Oggi, il Paese dell’Asia Centrale è nel bel mezzo di un atto di creazione, interrogandosi sulla propria identità nazionale. E lo fa con molti pericoli attorno, dalla Federazione russa al fondamentalismo islamico, passando per l’esclusione delle minoranze. Ma le giovani generazioni sono fiduciose, guardando sì alle tradizioni nomadi, ma anche con grande apertura al futuro.

Dall’8 al 13 settembre scorsi si è svolto il grande raduno dei Giochi Nomadi ad Astana, capitale del Kazakistan. Quello che ho trovato là, mentre mi interessavo di tiro con l’arco da un cavallo al galoppo e mi dilettavo di fronte al lancio della carcassa di una capra morta, è stato molto di più che una festa per celebrare la cultura nomade delle steppe. Questi giochi rientrano nel quadro di una situazione molto particolare che sta vivendo la regione ex sovietica dell’Asia centrale: nazioni come il Kazakistan (Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan) esistono appena da una trentina di anni in quanto Stati indipendenti.

Ci troviamo dunque nel bel mezzo di un atto di creazione complicato, che porta questo popolo a interrogarsi sulla propria identità e sulla strada da percorrere.

Come mi dice Muza, una ragazza kazaka di venticinque anni, «abbiamo tutte le porte aperte davanti a noi: ma abbiamo anche molti pericoli intorno». Uno di questi si chiama Federazione russa, l’altro «esclusione delle minoranze». Per non parlare del fondamentalismo islamico.


© Sara Rossi Guidicelli
Vecchi che discutono

Il rapporto con la Russia

Gli zar avevano conquistato le terre dell’Asia centrale dando loro il nome di Turkestan nella seconda metà del Diciannovesimo secolo. Nel 1917 i locali coloni russi mantennero il potere passando dalla parte dello zar a quella dei bolscevichi; il Soviet decise che al posto di frutta e verdura, lì ci sarebbe stata una monocoltura del cotone.

Laghi e fiumi furono prosciugati portando a una scarsità idrica di cui si soffre oggi più che mai; la religione fu bandita e le molte lingue locali declassate. I russi imposero la propria lingua, il proprio alfabeto e confini arbitrari, creando così una polveriera etnica, che oggi distinguiamo in nazioni che al proprio interno sono abitate da etnie diverse. Questi popoli hanno in comune il nomadismo, l’Islam, molte usanze, lingue di ceppo turco (tranne i tagiki che parlano un’antica forma di persiano). Oggi in Kazakistan convivono 130 minoranze e quasi il 20 per cento della popolazione è costituito da russi. Le sue lingue ufficiali sono kazako e russo. “Ci stiamo decolonizzando”, mi raccontano Muza e suo marito Tommaso, un pilota italiano che si è stabilito con gioia ad Astana da un paio di anni.

«Vedi, qui, ai Giochi Nomadi? È tutto scritto solo in kazako e inglese. Per noi è un atto di sfida, di orgoglio». La fierezza nazionale è il tema del momento. La riscoperta delle tradizioni nomadi è fondamentale per costruire un’identità nazionale.


© Sara Rossi Guidicelli
Cacciatori col falco

Una lega di Paesi turchi, una lingua da sviluppare e un alfabeto latino

Il nostro tassista Tolkin, ex ingegnere geotermico, è ottimista e gentile. «Ci vuole tempo, non ci si affranca in un giorno da chi ti ha invaso per secoli», spiega. «Stiamo edificando una difesa: il Grande Turkestan!». È un sogno antico: dal Mar Caspio alla Cina, le terre dell’Asia centrale si sentono unite, anche perché per millenni erano i pascoli, senza confini, di tutte le tribù nomadi che le percorrevano. «Un giorno avremo un passaporto unico e frontiere aperte. Io per esempio sono kazako cresciuto in quello che chiamano Uzbekistan. Siamo tutti fratelli, tutti abbiamo coltivato il cotone da bambini per l’Impero sovietico. Vedi i cartelli in città? Stiamo cercando di convincere negozi, bar e ristoranti a mettere il nome in kazako. Poi, a poco a poco, potremo anche abbandonare il cirillico e scrivere la nostra lingua con l’alfabeto latino, come la Turchia».

Muza aggiunge: «Molti di noi, anche giovani, si sentono più a proprio agio parlando russo; siamo abituati così. Ma ci teniamo a ritrovare le nostre radici e quindi ci sforziamo di recuperare la nostra lingua».

Le parole sono importanti

Quando nel 2017 il governo del Kazakistan ha annunciato di voler scrivere la lingua kazaka in alfabeto latino, un deputato della Duma ha dichiarato che si trattava di un attacco contro la Federazione Russa. Recentemente, poi, è entrata in vigore una legge che impone di conoscere il kazako per accedere a un posto di lavoro statale. Dal Cremlino sono giunte minacce e il presidente Qasym-Jomart Toqaev ha chiarito che la lingua russa continuerà ad avere onore e rispetto, ma che l’obiettivo principale in questo momento è lo sviluppo del kazako.

Nel 2023, infatti, durante una visita di Putin, Toqaev ha iniziato il discorso ufficiale in kazako prima di passare al russo, fatto mai avvenuto prima d’allora. Questa mossa ha sorpreso gli ospiti e li ha obbligati a mettere le cuffie per la traduzione simultanea. I kazaki sono bilingui, i russi no. Un piccolo gesto, qualche minuto. Ma questo significa: “Non siamo più una colonia”.


© Sara Rossi Guidicelli
Gelataie ai Giochi Nomadi

La Svizzera come esempio

A una partita di tiro alla fune incontro una coppia di giovani viaggiatori della Svizzera romanda, che di mestiere da tre anni gira il mondo. Insieme commentiamo la scelta della lingua. «Capiamo la voglia di recupero della lingua nazionale, ma siamo perplessi di fronte alla scelta di allestire il Museo nazionale solo in inglese e kazako… Come se a Zurigo mancasse il francese o l’italiano: come reagireste voi ticinesi?», mi chiedono. Il russo in effetti non è solo la lingua dell’ex invasore, è anche la lingua di persone che da generazioni si sentono kazake… In questa giustissima e comprensibile rivalsa nazionale, si rischia di creare nuove minoranze trascurate.

E qui entra in gioco il ruolo della Svizzera, che in questi processi ha un compito delicato ma importante: dimostrare con il suo esempio che le minoranze linguistiche, religiose, politiche e culturali possono partecipare a un governo democratico, senza togliergli forza, anzi. Le università del Paese invitano regolarmente conferenzieri elvetici per raccontare come funziona un governo federale, per riflettere sul fatto che non bisogna per forza essere monoetnici o monoreligiosi, anche se sembra più facile (si pensi alle guerre europee dei secoli scorsi per far coincidere una nazione con un popolo). La Svizzera può dimostrare che ci sono i modi per provare a convivere, rispettarsi, distribuire la partecipazione e coinvolgere davvero tutto il popolo nelle decisioni che lo riguardano. I kazaki ascoltano, affascinati e dubbiosi. Forse è ancora presto, ma tra un po’ di tempo potrebbe già essere tardi.

Religione

Il terzo pericolo dal quale devono guardarsi è di non finire preda di un nuovo più subdolo invasore: il fondamentalismo religioso. Nel Paese si parla molto di un ritorno alla fede, legato al recupero delle radici, dell’aumento delle donne che portano il velo, della costruzione di immense moschee come simboli di riscatto e rottura dal periodo comunista. Bisogna stare attenti, dicono gli analisti: infatti, mentre il Kazakistan cerca di assottigliare la sua dipendenza dalla Russia, aumentano gli investimenti da parte dei Paesi del Golfo, che ormai sono i maggiori finanziatori nel tessuto economico kazako.

Tolkin ha quattro figli, sono tutti all’estero, hanno un buon lavoro, una delle sue figlie è una musicista che va in tournée in tutta Europa. Secondo lui le persone che vivono in Kazakistan sono ancora troppo impegnate a lavorare alfine di sopravvivere per preoccuparsi di una deriva fondamentalista. Ne parlo con due arciere a cavallo, una kazaka e una kirghisa: «Buttare via l’eredità acquisita nel Novecento, anche grazie all’Unione Sovietica, è un pericolo concreto. Nei nostri Paesi, siamo abituati alla parità uomo-donna e per questo noi cavalchiamo e tiriamo con l’arco! Noi ci battiamo per non dimenticare le tradizioni dei nostri antenati nomadi, ma questo non deve significare un ritorno alla vita di secoli fa… I nomadi ci tengono alla libertà e nessuno più deve venire a dirci cosa fare».


© Sara Rossi Guidicelli
Griglia tradizionale con spiedini di pecora

Il fenomeno del Q-pop

Le nuove tendenze musicali sembrano dare loro ragione: qui infiamma il Q-pop, versione locale del fenomeno coreano K-pop. La nuova generazione kazaka ama il Q-pop perché per la prima volta cantanti che piacciono ai giovani propongono temi legati alle radici etniche, videoclip con simboli culturali nazionali, il tutto in lingua kazaka (scrivendo in caratteri latini Qazaqstan, con la traslitterazione turca). Cantanti come Miras Zhugunussov, la giovane Ayau, Moldanazar mescolano modernità alla tradizione: portano capelli colorati, abiti e makeup sgargianti, pantaloni attillati per entrambi i sessi. Dimash, ormai una star da 22 milioni di follower in tutto il mondo, è il preferito. E canta in kazako, russo, turco, francese e inglese.


Questo reportage è stato realizzato con il sostegno di JournaFonds

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