La cognizione del dolore. Con buona pace di Gadda…

Senza “quella sofferenza” la nostra integrità fisica, e la nostra stessa sopravvivenza, sarebbero seriamente in pericolo. Come per paura, insomma

Di Mariella Dal Farra

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

L’ultimo film di David Cronenberg – Crimes of the Future del 2022 – è ambientato in un futuro distopico in cui il dolore fisico e le malattie infettive non sussistono più, probabilmente (ma non viene specificato) grazie al progresso della scienza medica. Contrariamente a quanto tali premesse sembrerebbero implicare, il mondo senza più dolore né malattia è un contesto decadente, involuto, che cade letteralmente a pezzi: c’è il relitto di una nave nel porto, ma non viene mai rimosso; le abitazioni, gli uffici, i locali pubblici sono fatiscenti; nessuno si cura molto delle norme igieniche e anche il senso estetico subisce strane trasformazioni… L’antifona è chiara: il dolore e la paura (per esempio, del contagio) sono le nostre sentinelle, i nostri sistemi di allarme, i segnali che prevengono l’abbassarsi delle difese, rintuzzando la vigilanza e spingendoci a un costante lavoro di manutenzione, riparazione e rinnovo.

Parlare del dolore sottolineandone la funzione protettiva e salvifica tende a modificarne non solo la valenza (da negativa a positiva) ma anche la percezione (se avete male da qualche parte, forse ora la sensazione è leggermente più sopportabile… meno intensa). Se così fosse, non sarebbe strano perché il dolore fisico, che si diparte dai recettori distribuiti nel nostro corpo, viene processato – e, quindi, diviene tale – nel cervello. In altre parole: “L’intensità e la spiacevolezza di un’esperienza dolorosa è spesso riportata unicamente al grado di sollecitazione nocicettiva (l’apparato nocicettivo è l’insieme delle strutture nervose – recettori periferici, gangli spinali, neuroni e interneuroni midollari ecc.– che ricevono, trasmettono e modulano gli stimoli e gli impulsi dolorosi, nda). Tuttavia, la percezione del dolore non è un fenomeno lineare, che si limita a riflettere il segnale inviato dai recettori periferici. Al contrario, l’impulso doloroso può essere modulato a ciascun livello del sistema neurale. Una delle più potenti fonti di modulazione è il cervello, anche se questi meccanismi non sono ancora stati studiati in maniera sistematica” (Petrovic & Ingvar. “Imaging cognitive modulation of pain processing”, Pain, 2002).

Sensibilità, sensazione e percezione

Il grado di sensibilità al dolore è in parte biologicamente determinato: alcuni individui hanno una soglia fisiologicamente più bassa e altri più alta, e questo anche su base genetica (Mogil, “The genetic mediation of individual differences in sensitivity to pain and its inhibition”, Proceedings of the National Academy of Sciences, 1999). Al contempo, i meccanismi di modulazione “top-down” (quelli cioè che vanno dall’“alto” dei processi cognitivi – attenzione, memoria, attività concettuale eccetera – al “basso” dei dati sensoriali) si sono dimostrati capaci di produrre sia insensibilità che ipersensibilità allo stimolo doloroso, e la loro rilevanza è sempre più evidente. Attualmente, il dolore viene riconosciuto come un’esperienza percettiva complessa, condizionata da diversi fattori di ordine psicosociale quali le emozioni, il contesto ambientale, il background socioculturale, il significato soggettivamente conferito, i beliefs e le aspettative. Tuttavia, la variabile che più di ogni altra è suscettibile di modificare la percezione del dolore fisico è senz’altro l’attenzione, che per questo motivo è anche la più studiata.
Nella ricerca sopraccitata (Petrovic & Ingvar, 2002), per esempio, i ricercatori hanno indagato il meccanismo in base al quale una sensazione dolorosa può attenuarsi e addirittura sparire quando la mente è impegnata in un compito che la distrae. Le persone che partecipavano all’esperimento sono state coinvolte in un compito che richiedeva alti livelli di attenzione (un test percettivo computerizzato che consisteva nel trovare l’uscita da un labirinto) mentre veniva loro somministrato uno stimolo doloroso. I risultati indicano che, quando i soggetti risolvevano l’esercizio del labirinto (a cui evidentemente avevano prestato grande attenzione) percepivano un dolore d’intensità inferiore rispetto a quando non vi era competizione per lo spazio attentivo. Coerentemente, a livello neurologico, nella condizione di “ingaggio” (quando cioè i soggetti sono distratti dal compito), si registra un decremento dell’attività corticale nelle regioni somatosensoriali e in un’area (la GPA, sostanza grigia periacqueduttale) che esercita un ruolo cardine nella modulazione del dolore perché stimola il rilascio di oppioidi endogeni, i quali inibiscono il segnale nocicettivo proveniente dai recettori periferici, impedendogli di raggiungere quelle aree corticali (ACC, corteccia cingolata anteriore) che interpretano il segnale come “dolore”.


Fotogramma tratto da “Crimes of the Future” di D. Cronenberg (2022).

La variabile psicologica

Il fatto che la “distrazione” possa ridimensionare in misura significativa l’intensità del dolore fisico trova quindi evidenza anche a livello neurale, e può essere “misurata” in termini di attivazione corticale. Un caso limite in questo senso è rappresentato dalle persone che soffrono di disturbi psicologici di tipo dissociativo, con particolare riferimento alle reazioni dissociative acute conseguenti a eventi stressanti (per esempio, un evento bellico o un’aggressione). Nel tentativo di fare fronte all’impatto emotivo provocato dall’esperienza traumatica, le persone ricorrono (non intenzionalmente bensì in maniera automatica, procedurale) a meccanismi di difesa di tipo dissociativo, “distaccandosi” per così dire dall’episodio sia cancellandolo (ma solo apparentemente) dalla memoria sia, in altri casi, “sterilizzandolo” in senso emotivo. Poiché i disturbi dissociativi modificano il grado di consapevolezza, e quindi di attenzione, di un individuo, non sorprende che questi soggetti mostrino una percezione del dolore anomala, fino a sperimentare, seppure per periodi transitori, fenomeni di completa analgesia.
Sul versante opposto, è noto come precisi stati psicologici possano determinare una ipersensibilità al dolore: persone che soffrono di ansia, depressione, o di un disturbo da stress post-traumatico riferiscono spesso di una condizione di dolore cronico non spiegabile, o comunque non del tutto riconducibile a cause di tipo fisico. È stato ipotizzato che l’ansia e lo stato di ipervigilanza determinino una maggiore sensibilità al dolore, che verrebbe “amplificato” dall’elevata reattività del sistema psicofisico (Defrin et al, “Paradoxical pain perception in posttraumatic stress disorder: the unique role of anxiety and dissociation”, The Journal of Pain, 2015). Per contro, è noto come lo stress provochi una reazione pro-infiammatoria (flogosi) che, se prolungata nel tempo, può avere ricadute significative sul corpo. Il confine fra il fisico e lo psichico è dunque sempre più difficile da tracciare.

Sentire quello che non c’è (più)

La casistica che più di ogni altra ci aiuta a comprendere quanto il dolore sia una sensazione complessa, che scaturisce tanto dal cervello quanto dai nervi periferici, è quella del dolore da arto-fantasma: un disturbo che interessa il 50-80% delle persone che hanno subìto l’amputazione di un arto. Continuare a percepire la presenza di una parte del corpo che è stata recisa, per esempio in seguito a un intervento chirurgico, è una sensazione comune nelle persone che hanno avuto questa esperienza. Possono esserci sensazioni fantasma relative alla posizione dell’arto, alla sua forma o movimento; oppure lo si può sentire prudere, formicolare, essere percorso da una scossa elettrica ecc. La percezione del dolore può essere molto intensa e viene esacerbata da fattori fisici (pressione sull’arto residuale ma anche cambiamenti meteorologici) e psicologici (stress).
Per spiegare il paradosso di un dolore localizzato in una parte del corpo che non c’è più, è stato ipotizzato (R. Melzack, “Phantom limbs and the concept of a neuromatrix”, Trends Neurosciences, 1990) che nel cervello di ognuno di noi esista una matrice neurale che contiene, per così dire, lo schema della nostra res extensa (del nostro corpo, insomma). Questa “mappa”, disegnata dalle sensazioni, verrebbe alterata dall’amputazione di una parte del corpo, ma ne manterrebbe la memoria. La percezione non dolorosa dell’arto fantasma sarebbe dunque un normale epifenomeno, dotato anzi di un valore adattivo, mentre il dolore da arto fantasma rappresenterebbe un fallimento della matrice neurale nel compensarne l’assenza sia per la mancanza di segnali nella corrispondente area dello schema sia a causa dell’attività anomala delle terminazioni nervose danneggiate. Il dolore che ne deriva è assolutamente reale, con l’aggravante di non potere essere trattato con la fisioterapia o anche soltanto alleviato da un massaggio.


© Shutetrstock

LA FORZA DEL “FALSO”

La centralità dell’elaborazione corticale nel produrre la sensazione del dolore fisico appare evidente se si considera l’effetto placebo (e il suo gemello cattivo, il nocebo; vedi più in basso). Nella sua forma più classica, il placebo è una preparazione farmacologica inerte (per esempio, una pillola di zucchero) che viene somministrata a un paziente dicendogli però che contiene principi attivi. L’effetto placebo consiste nel fatto che il “falso farmaco” produce nella maggior parte delle persone, sebbene in misura variabile, una significativa analgesia. In maniera analoga, la somministrazione di un nocebo (per esempio, una crema solare che viene presentata come contenente un ingrediente tossico) può elicitare una sensazione di iperalgesia, anche in assenza di dolore preesistente. Ma non si tratta semplicemente di suggestione: l’induzione psicologica di un’aspettativa (positiva o negativa, a seconda dei casi) innesca modificazioni a livello corticale (ACC), con incremento (o decremento) del funzionamento dopaminergico nelle aree associate ai meccanismi di rinforzo (nucleo accumbens) e conseguente modulazione del rilascio di endorfine. In altri termini, è come se il cervello “mimasse” l’effetto di un determinato farmaco, di cui ha imparato a conoscere le proprietà da esperienze precedenti, anticipandone per così dire l’esito. È stato per esempio dimostrato come un placebo somministrato dopo assunzioni ripetute di farmaci non-oppioidi come l’Aspirina o il Ketorolac produca effetti simili a quelli, rispettivamente, di Aspirina e Ketorolac, mentre un placebo somministrato dopo assunzioni ripetute di morfina produce effetti simili a quelli di questa molecola, compresi i collaterali (F. Benedetti et al. “Nonopioid placebo analgesia is mediated by CB1 cannabinoid receptors”, Nat Med, 2011; J.Y. Guo et al., “Dissection of placebo analgesia in mice: the conditions for activation of opioid and non-opioid systems”, J. Psychopharmacol, 2010).

PLACEBO E NOCEBO “FAI-DA-TE”

Diverse ricerche hanno dimostrato come ascoltare musica, percepire un buon profumo o guardare film comici sono tutti fattori che tendono a ridurre l’intensità percepita del dolore fisico, laddove ciascuno di noi ha invece sperimentato come l’essere in ansia oppure, più in generale, il trovarsi in uno stato emotivo a valenza negativa lo renda più difficile da sopportare. In virtù dei neuroni-specchio, e quindi del rispecchiamento sociale, anche il vedere un’altra persona che prova dolore modifica il modo in cui noi proviamo il nostro: se sopporta stoicamente, ci sembrerà meno intenso; se invece drammatizza, sentiremo più male…

Articoli simili