Di tutto un pop: Jethro Tull, le visioni del pifferaio magico
Un pubblico fedele al quale, nei decenni, si sono aggiunte seconde e terze generazioni pronte al richiamo dei tour e delle atmosfere sospese nel tempo.
Di Sergio Mancinelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione
Jethro Tull era un agronomo inglese del 1700, inventore della seminatrice meccanica e musicista dilettante a tempo perso. Poco per la verità. In quell’inizio del Settecento, corrente elettrica non ce n’era, né tanto meno trattori per arare e seminare. Il lavoro nei campi prendeva tutto l’arco della giornata e la sua invenzione incrementò dell’800% i raccolti. Ma Jethro Tull era instancabile, non solo trovava il tempo di suonare ma, perfino, di scrivere libri. Uno di questi era in casa di Terry Ellis, manager e produttore discografico. Ian Anderson un pomeriggio iniziò a sfogliarlo, rimase affascinato dalla poliedricità di questo personaggio e da ‘Blades’ cambiò il nome della sua formazione in Jethro Tull.In quella prima formazione dei Jethro Tull suonava il basso anche Jeffrey Hammond, amico d’infanzia dai tempi della scuola a Blackpool, la cittadina affacciata sul Mare d’Irlanda da cui provenivano e al quale Ian Anderson dedicò ‘Song For Jeffrey’, brano che per la prima volta fece entrare i Jethro Tull in classifica con tutto l’album ‘This was’, del 1968.
Con la fine degli anni 60 inizia a formarsi il suono e lo stile dei Jethro Tull, in netta contrapposizione con quanto il rock avesse proposto fino a quel momento. Blues, improvvisazione jazz e musica classica correvano nello stesso solco tracciato da quel flauto magico. Anche l’iconografia giocò un ruolo determinante: sin dagli inizi, Ian Anderson si dimostrò una figura eccentrica e spiazzante: capelli lunghissimi, un cappottone largo e consumato a mo’ di palandrana e stivali vecchi e logori con i quali, a grandi falcate, attraversava il palcoscenico nei live. E proprio i concerti si rivelarono da subito il loro asso nella manica, anche quando al pubblico arrivavano note inaspettate e inimmaginabili. ‘Boureè’ è una danza per liuto che J.S. Bach compose intorno al 1730. L’inquilino che abitava al piano di sotto di Ian Anderson, quando questi prese casa a Londra, si esercitava continuamente alla chitarra proprio su questo pezzo e, a un certo punto, non sapendo proseguire, iniziava da capo. Ian Anderson, non avendola mai ascoltata, rimase affascinato da questa melodia e con il suo flauto riuscì poi a catturare l’essenza intima di queste note.
Tutto l’album Stand up era ricco di piccoli capolavori, la vena creativa di Ian Anderson sembrava inarrestabile. Seguirono una serie di tournée europee con il tutto esaurito ovunque, Italia in primis. Concerti nei quali il palco era tutto suo e dove, con autentica padronanza della scena, accresceva la sua eccentricità in una intera galleria di pose e posizioni fino a diventare un autentico ‘acrobata del rock’, con la tipica posizione su una gamba sola, fino a suonare il flauto con la stessa ferocia con la quale tutti gli altri suonavano la chitarra elettrica, il marchio di fabbrica dei Jethro Tull che ha saputo attraversare indenne oltre cinquant’anni di musica. Ma quella carica così forte ed esplosiva sul palco era capace anche di morbide ballate in cui tutto il folk inglese trovava nuova linfa. Ian Anderson è stato uno straordinario creatore di piccole gemme acustiche, a volte inaspettate rispetto alla forza e alla carica dei concerti dal vivo. Tanta abbondanza di materiale portò, naturalmente, a dover sacrificare alcuni brani dalla prima pubblicazione su Lp. Accadde anche a ‘Witch’s Promise’. Gioiellino per chitarra, flauto e mellotron, il brano non entrò nella scaletta dei brani di Benefit, salvo poi riapparire nella ristampa. Venne pubblicata solo come 45 giri ma segnò una svolta, perché da quel momento Ian Anderson decise di non pubblicare più singoli, ma dare alle stampe con il nome Jethro Tull solo album interi. Scelta coraggiosa ma vincente visto quello che stava per arrivare.
E nel 1971 arrivò Aqualung, che già dal suo inizio scosse le fondamenta del rock inglese cavalcando potentemente l’onda del ‘progressive’ che stava impadronendosi dei gusti e delle classifiche. Un album incentrato sullo scorrere della vita e su tutte quelle persone che, in quello scorrere, vivono ai margini. ‘Aqualung’ è un respiratore subacqueo e il suono, il rantolo di quel respiratore, è per Ian Anderson simile a quello del respiro del clochard protagonista dell’intero disco. Anderson scrisse questo brano, poi l’intero album, dopo aver visto una foto scattata da sua moglie Jeannie a un barbone su una panchina in periferia; gli vennero in mente testi forti, ruvidi, a tratti sprezzanti, che andavano a scavare nelle rovine umane di un uomo senza più limiti e morale, che si scagliava contro un invisibile dio, causa di tutte le sue sciagure.
“Seduto sulla panchina di un parco guarda le ragazzine con brutte intenzioni / il naso gli cola dal freddo e si imbratta i vestiti logori
con le dita unte, / si sente inutile a tutto e maledice dio, sputando contro la sorte”.
Dopo uno shock iniziale di questo tipo, il secondo pezzo spiazzò anche i più scettici: ‘Cross Eyed Mary’, la giovane prostituta che si concedeva ai clochard e allo stesso Aqualung. ” Per me – ha detto Ian Anderson – l’importante era cogliere la spiritualità di ogni protagonista. Ci sono persone sgradite e sgradevoli ma l’occhio umano non può fermarsi solo a ciò che vede. È importante cogliere quello che non si vede ma c’è. Quella carica di umanità che ogni singola persona possiede”. Mary guadagna pochi soldi con i suoi clienti ma si offre anche a chi non può permetterselo. Del resto, nessun uomo benestante la degnerebbe del pur minimo sguardo. I clochard trovano in lei un attimo di felicità nella loro vita devastata, anche perché solo lei è disposta a concedersi a loro: Mary, la Robin Hood di Highgate.
Il terzo colpo vincente di Aqualung è stato ‘Locomotive Breathe’ , il soffio del vapore che si intreccia al ritmo pulsante della vita, per anni il pezzo conclusivo dei loro concerti. ‘Locomotive Breathe’ parla dell’inesorabile scorrere della vita, paragonato a un treno che non può fermarsi perché il “vecchio Charlie” ha rubato la leva del freno. Charlie è Charles Darwin, il primo ad aver presentato un’alternativa scientifica alla credenza religiosa sulla vita. Per cui Charlie rubando, togliendo la leva del freno, ha cambiato il modo di pensare che per secoli aveva condizionato gli uomini.
È il momento d’oro dei Jethro Tull, e su quell’onda la mente creativa di Ian Anderson dà vita a Thick as a Brick, disco arditissimo, due facciate di vinile senza canzoni ma un’unica suite di 44 minuti in cui parti cantate e strumentali si susseguono senza interrompersi mai; magici arpeggi di chitarra in cui si incastonano perfettamente gli interventi del flauto con una ritmica forte e a tratti marziale. Vivono in quei 44 minuti, perfettamente armonizzati, momenti rock, tradizione folk, richiami classici e atmosfera progressive. Dal vivo, nei tour successivi, la prima parte di Thick as a Brick, la più efficace, viene seguita dal pubblico praticamente a memoria, a testimonianza degli infiniti ascolti che ogni spettatore le ha dedicato. Imperdibile la copertina con un giornale completamente sfogliabile e Ian Anderson in forma strepitosa che, oltre a flauto e chitarra, suona anche violino e bassotuba.
L’apice artistico e creativo raggiunge in quegli anni il culmine, ma il successo e la credibilità guadagnati in Europa e negli Stati Uniti hanno permesso ai Jethro Tull di garantirsi un pubblico fedele e costante al quale, nei decenni, si sono aggiunte seconde e terze generazioni pronte al richiamo dei loro tour e delle loro atmosfere sospese nel tempo. Il tempo magico del rock nella stagione del progressive.
Keystone
Los Angeles, anno Duemila