Naturalmente… vino! La filosofia dietro al ‘bio’

Cresce la nicchia dei vini naturali in Svizzera, ma mai come in Francia e Italia. Tra coltivazione biodinamica e marketing, come stanno le cose?

Di Marco Jeitziner

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione

È una nicchia ancora poco conosciuta quella dei vini cosiddetti naturali, biologici o biodinamici. Si stima una produzione di solo il 2% in Svizzera. È solo del 2021 l’Associazione Svizzera Vini Natura (ASVN) con sede in Romandia. Uno dei suoi scopi, si legge nel sito internet, è di “dimostrare che è possibile coltivare vini vivi di alta qualità senza l’aggiunta di fattori produttivi”, per esempio i famosi solfiti, cui alcune persone sono allergiche.

‘Scelta filosofica’

Ma cosa sono i vini naturali? Mario Testa e Michel Van Roon, fondatori del marchio Raw-Excellence presso uno spaccio di vini naturali a Lugano, e il collaboratore alle vendite Tiziano Dozio, ci spiegano l’abc di questo prodotto. “È un termine convenzionale che non riporta a nessun disciplinare (per quello esistono le certificazioni)”, spiegano, serve a “distinguere vini prodotti in maniera artigianale e sostenibile” da quelli industriali o “con forti interventi da parte dell’uomo nei processi”. Le condizioni sono che “deve provenire da uve di proprietà del vignaiolo, coltivate in agricoltura biologica o biodinamica”. Il biologico “deve essere coltivato su terreni lontani da fonti di contaminazione, come autostrade e fabbriche, senza l’utilizzo di prodotti chimici di sintesi come fertilizzanti, diserbanti e insetticidi”. E la biodinamica? “È nata molto prima dell’agricoltura biologica, negli anni Venti a opera del filosofo e studioso tedesco Rudolf Steiner“, secondo principi molto chiari (“biodiversità, rotazione delle colture, osservazione delle fasi lunari, dei cicli planetari nella semina e nella coltivazione, divieto di utilizzare prodotti chimici” eccetera). In Svizzera dal 1997 solo la Federazione Demeter certifica il biodinamico.


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Impossibile, anzi no

Stando alla Federviti ticinese, si leggeva lo scorso agosto, a causa della “alta umidità dell’aria” e delle “condizioni ambientali irregolari” del Ticino, coltivare una vigna biologica “risulta problematico”, anzi, “un discorso totalmente sostenibile non è mai possibile”. I nostri interlocutori la pensano diversamente. Per loro, “i processi di vinificazione devono solo accompagnare l’uva a divenire vino e non essere invasivi”, ovvero “solo fermentazioni spontanee con lieviti indigeni, nessuna aggiunta di chimica – se non una quantità minima di solforosa all’imbottigliamento – nessuna filtrazione, nessuna chiarifica”, perché tende a impoverire le proprietà alimentari e di gusto. Secondo i nostri adepti del vino naturale “in altre parti del mondo esistono territori simili a livello climatico al Ticino, dove ci sono produttori che fanno questo tipo di agricoltura”. Se è vero che il vino naturale costa in media il 20% in più, per Pascale Deneulin, docente all’Alta scuola di viticoltura ed enologia di Changins, “diventerà un settore che si posizionerà a fianco dei vini più tradizionali”, riporta rts.ch. L’anno scorso si è tenuta la prima fiera di vini naturali in Svizzera e c’erano anche vinificatori ticinesi. Il prodotto “ha maggiormente preso piede nella Svizzera interna e francese (soprattutto nelle grandi/medie città), mentre il Ticino fatica”, ci spiegano, anche se la vicina Milano è “una delle roccaforti del vino naturale in Italia”. Una questione culturale, di numeri o solo di curiosità?


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NEL MARKETING MANCA UN’IDENTITÀ UNITARIA

Il buon vino svizzero sconta il federalismo e il plurilinguismo? Sembra di sì. Ne parliamo con Gianluca Miozzari, diplomato in Internationale Weinwirtschaft (B.Sc) presso l’Università di Geisenheim (Germania) e consulente nella promozione a Lugano. Come mercato, premette, “siamo piccoli, per non dire piccolissimi”. Quindi anche la vendita ne risente: “La Svizzera ha prodotto nel 2020 83 milioni di litri, di cui circa un milione è stato esportato”. E questi sono “numeri quasi insignificanti rispetto ai grandi mercati vitivinicoli mondiali”. Ma i motivi? Diversi: “Non esiste una nomea del vino svizzero nel mondo, non vengono stanziati molti fondi per la promozione all’estero, la produzione soddisfa a malapena la domanda interna svizzera, alti costi di produzione, prezzi finali delle bottiglie molto alti, infine non vi è una estrema necessità dei produttori di esportare, per cui non investono in tal senso”. Non c’è un vero marketing nazionale a causa, spiega l’esperto, della “mancanza di un’identità unitaria”. Malgrado gli sforzi (Swiss Wine, Ticinowine eccetera) “probabilmente il vino svizzero non si è mai comunicato nel modo corretto”. Austria e Germania invece fanno meglio. Il primo paese era un “piccolo produttore”, afferma Miozzari, ma “negli ultimi anni si sta facendo conoscere in tutto il mondo”. Il secondo “si sta affermando tra le potenze mondiali del settore”, anche perché le nuove generazioni berrebbero “principalmente vini autoctoni”. Certo, poi conta il prezzo finale. Eppure i vini elvetici si vendono. Di solito, dice Miozzari, “sono quelli Premium che si posizionano nelle fasce di prezzo più alte”, attirano l’attenzione “soprattutto da parte dei bevitori appassionati ed esperti del settore”, senza dimenticare “i Pinot Noir grigionesi e vallesani, i grandi bianchi del canton Vaud e il nostro amato Merlot ticinese”.

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