Un amore ticinese nella lotta dei Saharawi

Storia di una relazione e di un popolo perseguitato e condannato alla cattività nei campi per rifugiati.

Di Cristina Pinho

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato del sabato a laRegione.

Dal giorno in cui si sono sposati, oltre 14 anni fa, il periodo consecutivo più lungo che hanno trascorso insieme è stato di 16 giorni. Il loro ultimo incontro risale invece a settembre 2019, con la pandemia che si è messa di mezzo. Basterebbero questi pochi numeri per intuire la misura di quello che è un rapporto piuttosto inconsueto. A renderlo maggiormente tale contribuisce il velo di segretezza che lo ricopre. È per proteggere suo marito che Claudia – nome di fantasia – racconta questa storia d’amore per sottrazione, lasciando nell’anonimato i riferimenti anagrafici. Lei è un’artista nata in Ticino che attualmente risiede in un altro cantone, lui è un importante funzionario saharawi in esilio che ha fatto della lotta contro l’occupazione marocchina del Sahara occidentale il fulcro della sua intera esistenza.

Parlarsi in codice

«Ho conosciuto mio marito in Africa, durante uno dei miei numerosi viaggi. Il nostro rapporto, come le nostre vite, non è mai stato convenzionale. Siamo una coppia abituata a lunghe assenze a causa dei nostri rispettivi lavori, ma tra noi c’è un legame fortissimo, come un’aura che accompagna sempre entrambi». A facilitare i loro contatti c’è la tecnologia, che tuttavia può rivelarsi una trappola, finora però sempre aggirata grazie a una solida complicità: «Normalmente ci sentiamo ogni 10-15 giorni, ma le conversazioni non sono mai totalmente libere. È già successo che i nostri telefoni siano stati messi sotto controllo e sappiamo che può capitare ancora, quindi dobbiamo badare bene a tutto ciò che diciamo e per questo motivo spesso parliamo in codice. In generale c’è sempre da stare attenti, valutare bene quali sono le persone di cui potersi fidare. Siamo costretti a vivere canalizzati da una situazione che ci impone costantemente di autoassicurarci. La nostra è un’unione che conoscono in pochi».

La preoccupazione è uno stato d’animo che appartiene al fondo della quotidianità di Claudia: «Il timore non manca mai, innanzitutto perché mio marito viaggia e vola moltissimo, non solo in Africa. È vero che il contesto rispetto al passato è cambiato, mi riferisco agli anni 80-90, quando ancora non lo conoscevo, anni durante i quali la sua vita era direttamente minacciata e lo volevano eliminare. Però ancora adesso deve sempre stare all’erta. Ovunque va, fa in modo di avere le spalle coperte. È solo qui con me che si sente veramente al sicuro e a casa».

Lo sguardo su due universi

L’aspetto della diversità culturale fra il mondo arabo-musulmano e quello occidentale-cristiano non ha mai costituito un problema per la coppia. L’apertura di vedute e la preparazione intellettuale di entrambi hanno portato a declinare tale accostamento in termini di affinità e complementarità. «Il rapporto con mio marito e il suo popolo è un arricchimento pazzesco che mi è utile anche nell’affrontare la vita di tutti i giorni. Mi rendo conto della fortuna che possiedo nel vivere in Europa, dove ho una casa, un telefono, la luce e posso spostarmi quando voglio. Coltivo questa consapevolezza perché dall’altra parte sono confrontata con un modo di vivere spartano, che non per forza vuol dire peggiore, ma dove è frequente che per qualche giorno non funzioni il telefono, manchi la corrente, la tenuta del frigo sia incerta per cui si decide all’ultimo cosa comprare. Sono problemi che qui non esistono più, viviamo nell’abbondanza e la gente ha la tendenza a lamentarsi per un sacco di stupidaggini. Talvolta faccio fatica a sopportarlo».

Un popolo frammentato

Anche per questa ragione Claudia ha deciso di dedicare le sue energie a far conoscere la vicenda del popolo saharawi, da sempre relegato ai margini delle narrazioni. Una storia di oppressione e resistenza che risale al 1975, quando il Marocco si è preso il mare, il prezioso fosfato e il futuro di quattro generazioni costrette nella prigione a cielo aperto dei territori occupati o arenate nei campi rifugiati saharawi su territorio algerino, dove Claudia è stata in visita più volte.

«È un’esperienza che dà molto a livello personale, consiglio a chiunque ne abbia l’opportunità di andare sul posto. La zona è divisa in cinque campi che hanno preso il nome delle città principali del Sahara occidentale e in cui vivono le diverse tribù seguendo ognuna la propria cultura. C’è una grande organizzazione, tutti i bambini vanno a scuola e la copertura internet è del 70%. Questo permette ai giovani di avere un contatto con il mondo esterno, ciò che da una parte è ovviamente molto positivo, ma dall’altra genera parecchia frustrazione perché dal confronto col resto del mondo aumenta l’impatto con l’ingiustizia della loro condizione».

Datteri e latte di cammella

Tuttavia non manca la positività, un aspetto che Claudia ha ritrovato ad ogni visita. «Malgrado tutta la sofferenza patita da questo popolo, non ho mai sentito nessuno parlare male di qualcun altro. La gente è molto cordiale, ha un grande interesse nel conoscere culture diverse pur essendo orgogliosissima della propria. Quando si è ospiti nelle famiglie – ovviamente non ci sono alberghi – ci si sente pienamente accolti. È un popolo che tiene molto a condividere quello che ha, partendo dalla sua “comida”,  anche quando non gli restano che dei datteri, del latte di cammella e un pezzo di pane». E non è raro che il cibo scarseggi: nei campi algerini il problema della malnutrizione è strutturale e tocca il 14,5% dei bambini, superando così perfino i tristi primati del Sudan e della Somalia.

L’orizzonte del ritorno

«Un altro aspetto che mi ha sempre sorpresa è che quando si entra in questi campi si percepisce immediatamente la convinzione che un giorno tutti torneranno nella loro terra». Quella terra squarciata da un muro di oltre 2’700 chilometri, che in molti nei campi non hanno mai visto, ma che nonostante l’esilio non è mai diventata remota grazie ai racconti e alle memorie tramandate da chi l’ha abitata. Tra le convulsioni di una interminabile attesa, la rassegnazione non ha dunque mai trovato spazio. E sono soprattutto i giovani, ora, a dare impulso a una lotta che dallo scorso novembre è tornata a vestire i panni della guerra.

«Il popolo era giunto al limite della sopportazione e dopo l’attacco dell’esercito marocchino avvenuto a Guerguerat si è organizzato e ha imbracciato le armi. Alcuni media nel resto del mondo ne hanno parlato per un paio di settimane, ma poi è calato un silenzio assoluto. Eppure ogni giorno ci sono attacchi dalle due parti. La strategia adottata dal Marocco è di non rilasciare nessuna informazione. Invece il Sahara occidentale giornalmente divulga un bollettino trasmesso anche dall’Algeria. Il problema è che nessuno può andare a verificare sul posto quello che accade, si tratta di una zona off limits per i giornalisti internazionali e in generale per chiunque voglia entrare in quel lembo di deserto». Ultimamente, però, pare che per le sorti degli oppressi il vento stia cambiando. «Dalla ripresa dello scontro, nei campi rifugiati si percepisce grande euforia. La popolazione saharawi considera questa guerra un modo per prendere direttamente in mano il proprio futuro e avvicinarsi a quella possibilità di autodeterminazione da 30 anni promessa dall’Onu e mai arrivata». Pur dovendo attraversare ponti segreti tra lunghe distanze, i messaggi che giungono a Claudia hanno limpida nella voce più che mai la speranza che un lunghissimo sogno di libertà si stia finalmente per avverare.

Il popolo saharawi

Lo scorso maggio, per vie traverse, la questione del popolo saharawi ha fatto un’incursione nel cuore dell’Europa. È successo sulle spalle di 8’000 migranti africani, la maggior parte dei quali giovani, lasciati deliberatamente entrare nell’enclave spagnola di Ceuta dal governo del Marocco, per poi essere prontamente ricacciati indietro dall’esercito dello Stato iberico. Un gesto di ripicca contro Madrid, rea di aver accolto in un ospedale spagnolo Brahim Ghali, presidente del Fronte Polisario, un movimento che lotta per liberare il Sahara occidentale dal giogo del Marocco. 

Ricchezze attrattive

Il Sahara occidentale è un lembo di terra conteso che si trova sulla costa nord-occidentale dell’Africa e confina con Marocco, Algeria e Mauritania. Area prevalentemente desertica, possiede però due caratteristiche allettanti che ne hanno decretato la condanna: una porzione di Atlantico tra le più pescose al mondo e giacimenti ricchissimi di fosfati.

Divenuto colonia spagnola ai tempi della spartizione dell’Africa, negli anni Trenta del secolo scorso i gruppi tribali arabi-berberi tradizionalmente residenti nell’area hanno cominciato a reclamare la loro indipendenza. Nel momento in cui la Spagna si è ritirata, ad avanzare le proprie pretese sulla regione è subentrato il Marocco, con re Hassan II che nel 1975 ha organizzato la cosiddetta Marcia Verde ponendo le basi per una definitiva appropriazione dei territori, e costringendo all’esodo migliaia di saharawi che hanno trovato rifugio nei campi profughi algerini e nel resto d’Europa.

 
Resistenza tra fuoco alterno

L’azione marocchina si è però scontrata con la resistenza del Fronte Polisario, movimento armato indipendentista che ha formato un governo in esilio, tuttora con sede a Tindouf nei campi profughi in Algeria. Questo governo ha autoproclamato la regione contesa Repubblica araba democratica saharawi (Rasd), che in quanto tale è stata membro fondatore dell’Unione africana e ne fa parte a pieno titolo. La Rasd, riconosciuta da 85 Paesi, non lo è però dall’Onu, che l’ha inserita nella Lista dei territori non autonomi, ovvero ancora soggetti a colonialismo.

La guerra con l’esercito marocchino è durata dal 1976 al 1991, per un totale di 15 anni di conflitto armato. A partire dal 1980 il Marocco ha iniziato ad erigere un muro cofinanziato da Arabia Saudita e Stati Uniti, arrivato fino alla lunghezza di 2’720 km, con lo scopo di limitare la capacità d’azione delle forze saharawi. Tra 10 e 12 milioni sono le mine antipersona disseminate lungo il suo percorso, che hanno causato centinaia di morti e feriti.

Nel 1991 il Marocco e il Fronte Polisario si sono accordati per un cessate il fuoco. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu in quel momento ha istituito la missione Minurso, con il compito di sorvegliare il rispetto della tregua, di facilitare il rientro dei profughi saharawi e di supervisionare un referendum di autodeterminazione, previsto per il 1992, che però non è mai stato indetto.

Esistenze calpestate

Nei campi rifugiati saharawi in Algeria da decenni vivono oltre 170mila saharawi dipendenti quasi interamente da aiuti umanitari, mentre altri 550mila saharawi sono rimasti nel loro Paese occupato. Il governo dell’autoprocalmata Repubblica saharawi esercita il potere sovrano sulle cinque zone autonome dei campi profughi e sui territori liberati del Sahara occidentale che si trovano a est del muro, dunque senza accesso al mare. Il Marocco controlla invece il resto della regione, i territori occupati, comprese tutte le attività economiche e commerciali. Un esempio emblematico di tale politica è che alcuni supermercati svizzeri sulle etichette dei pomodori e dei meloni prodotti nel Sahara occidentale “faticano” a scrivere la reale provenienza, preferendo indicare ‘Marocco’. In generale l’accesso alle risorse naturali così come al lavoro è riservato solo ai marocchini, condannando i saharawi a una condizione socioeconomica molto sfavorevole. Sistematicamente, inoltre, sono violati molti altri loro diritti fondamentali, tra cui quelli d’opinione e d’espressione e la libertà di riunirsi pacificamente. Considerando anche il fatto che la presenza dei coloni è attualmente quattro volte superiore rispetto a quella dei saharawi rimasti, risulta chiaro come all’interno dei territori occupati la demografia, la cultura e i modi di vivere della popolazione originaria siano stati completamente stravolti.

 

Preludio alla Primavera araba

In questo 2021 ricorre il decimo anniversario della Primavera araba. Per alcuni analisti, tra i quali Noam Chomsky, la scintilla si accese però già nel novembre del 2010, proprio nel Sahara occidentale, quando almeno 20mila uomini, donne e bambini si radunarono per un mese in un accampamento a Gdeim Izik. Una protesta pacifica, volta a denunciare i soprusi subiti dai saharawi nei territori occupati, che finì con lo smantellamento del campo e le tende date alle fiamme per ordine di Rabat, e con l’arresto e la tortura di centinaia di saharawi. Ventisette di loro sono tuttora in prigione a scontare lunghissime pene tra quotidiane umiliazioni. In particolare, da alcuni anni in tre si trovano segregati in celle di isolamento.

Un decennio dopo, a novembre dello scorso anno, alcuni manifestanti hanno occupato in maniera pacifica il valico di Guerguerat, nella zona liberata sotto controllo del governo saharawi, bloccando il traffico commerciale marocchino in entrambe le direzioni. Il governo del Marocco ha risposto con un’operazione militare, a cui è seguito il contrattacco del Fronte Polisario. Da allora il conflitto armato è ripreso, tra la generale indifferenza del resto del mondo.

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