L’ansia di non saper gestire l’ansia

Non siamo fatti per stare chiusi tra 4 mura. Il rischio (fra le molte altre “controindicazioni”) è di ritrovarsi con un’ospite indesiderata. Proprio in casa

Di Giovanni Luise

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

Stare forzatamente in casa ci ha aiutato a riscoprire noi stessi. Ora, infatti, siamo tutti relativamente in grado di preparare una pizza e sappiamo che il lievito di birra si può addirittura congelare, ma abbiamo anche realizzato che trascorrere molto tempo rinchiusi tra quattro mura aumenta in modo esponenziale il nostro livello di ansia.
Per natura siamo abituati a scappare dalle situazioni che ci creano disagio, quindi aspettiamo con trepidazione la fine del lockdown per poter finalmente passare in modalità Forrest Gump e correre liberi fuori dal comune, dal cantone, dalla nazione e dal pianeta. 
Ora, la domanda è: prima di diventare pizzaioli provetti, eravamo capaci di gestire meglio la nostra ansia? 
In realtà, da quel (maledetto) giorno in cui siamo diventati adulti, abbiamo cominciato a svegliarci la mattina con l’idea di dover fare al meglio le quattromilacinquecento cose programmate minuziosamente la sera precedente, ma disponendo di un cervello molto più piccolo della nostra infinita
“to do list”, abbiamo ahimè sviluppato una straordinaria capacità di trasformare un pensiero entrato nella testa in un problema che non esiste, il problema che non esiste in una paranoia, la paranoia in preoccupazione e la preoccupazione è il cuore pulsante dell’ansia.
Eppure, già nel 300 a.C. Epicuro era stato limpido e cristallino nell’affermare che bastano tre semplici cose per godere di uno stato mentale di totale tranquillità: liberarsi dalla paura della morte, soddisfare i propri desideri basilari come mangiare o ripararsi, e fare tesoro delle amicizie. Tutto qui.
Certo, facile per lui che non ha dovuto ubbidire a una trentina di regole solo per buttare la spazzatura, o che non ha mai passato un’ora del suo tempo bloccato nel traffico, o che non si è mai ritrovato ad avere a che fare con un rallentamento del wi-fi. 
Avremo anche le nostre colpe nel non essere stati dei discepoli degni di capire i precetti del filosofo greco, ma bisogna ammettere che la società non si è dimostrata l’alleata ideale per lenire la nostra angoscia abituale; per esempio, nella lingua tedesca si dice “quanto è tardi?” invece di usare l’espressione “che ore sono?”. Ecco come l’ansia possa essere capace di porre le sue radici già nelle fondamenta della lingua.
Sono sostanzialmente due gli ambiti in cui spazia la nostra ospite indesiderata: la sfera fisiologica, facilmente identificabile con il battito del cuore accelerato, il respiro affannato, il nodo in gola, lo stomaco che va a fuoco e quel senso di apprensione come se da lì a cinque minuti dovessimo improvvisare il discorso di apertura delle Olimpiadi. Inoltre attacca l’aspetto cognitivo, creandoci difficoltà di concentrazione, irritabilità, preoccupazioni, “SÌ! SÌ!” che diciamo senza aver ascoltato una parola del nostro interlocutore, e pensieri irreali che confondiamo con la realtà escogitando mentalmente il modo per evitare disastri che poi, puntualmente, non si verificano.
È interessante osservare come l’ansia raramente si concentri sul presente ma dia il meglio di sé facendoci rimuginare ciò che è stato o ciò che sarà. Un ruolo fondamentale lo svolge l’amigdala, e cioè quella parte del cervello responsabile delle emozioni, che riesce a fare solamente una cosa alla volta per cui è capace di avvertirci se una situazione è pericolosa, ma la fregatura è che non riesce a fare distinzioni tra i diversi livelli di pericolo generando, quasi sempre, la stessa reazione fisica ed emotiva.
Consapevoli, quindi, che né il cervello né la società ci danno una mano, spetta solo a noi il compito di riuscire a distinguere una minaccia reale da una immaginaria. Funziona pressappoco così: se sei in montagna e incontri un orso, vivi un pericolo accertato perché se ti dà una zampata è presumibile che ti faccia male, ma se non riesci a dormire perché hai letto che è precipitato un aereo in Azerbaigian e domani devi prendere un volo, stai perdendo sonno prezioso per un’ipotesi la cui probabilità di verificarsi è 1 su 11 milioni. Il fatto è che quando ci sentiamo impotenti nell’affrontare le situazioni, giungiamo a conclusioni catastrofiche che automaticamente generano inquietudine. Siamo quindi eternamente destinati a rimanere schiavi dell’ansia? Sì, se continuiamo a temerla. Troviamo il coraggio di approfondire la sua conoscenza cominciando a chiederci “il perché” si sia manifestata. Se ci tormenta per un problema che possiamo risolvere, attiviamoci immediatamente! 
Se, al contrario, è causata da situazioni che vanno oltre il nostro controllo, non possiamo fare altro che imparare a lasciare andare e a sorridere del casino evolutivo di cui siamo fatti. Trasformandola da ospite indesiderata a piacevole amica venuta a trovarci, alla fine si ridimensionerà da sola perché ha bisogno di essere contrastata per alimentarsi. 
È una vita che ci facciamo definire dall’ansia, ma imparando a osservarla, a comprenderne la natura, ad accoglierla e quindi ad accettarla, saremo noi, per una volta, a definire lei. 

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