United Roads of America. Dalle Strade Blu ai Welcome Center

Qui, in Alabama, anche i biker più rudi cedono al richiamo di un beccheggio calmo sulle sedie a dondolo. Un buon modo per riflettere sul da farsi, chissà

Di Emiliano Bos

Pubblichiamo un articolo apparso sabato su Ticino7, allegato a laRegione.

“From Pine to Palm”, dai pini alle palme, c’era scritto sul cartello appeso dentro una stazione di servizio. Indicava il tragitto della celebre Jefferson Highway, cicatrice verticale in mezzo all’America, dal Canada a New Orleans. Io però avevo visto quel cartello con la mappa d’epoca sulla Interstate 95, lunghissimo corridoio per scivolare sulla dorsale atlantica degli USA, dai pini del Maine alle palme della Florida lambendo la East Coast. Meno iconica della Jefferson e meno storica della Route 66. Ma altrettanto intrigante con i suoi “Welcome Center”, che sanno accoglierti con eleganza, solitamente collocati appena oltre il confine tra uno Stato e l’altro. Sono il biglietto da visita ostentato lungo la doppia carreggiata, sorprendente cartolina di un’America meno ricercata delle illustrazioni patinate dei Parchi Nazionali.
In questi “centri d’accoglienza” stradale circola il Dna turistico degli USA. Le aree di servizio di solito sono più modeste, trasandati benzinai in identici non-luoghi. I “Welcome Center” invece possono rendersi accattivanti agli occhi del visitatore di passaggio, mettendo in mostra a colpi di dépliant le proprie perle-segrete-da-scoprire-in-giornata. A quello della South Carolina ho incontrato pochi giorni fa il signor John Dale, veterano del Vietnam, un velo di pizzetto e occhialoni neri come la sua Harley-Davidson del 2007 in tinta pece. Accanto a lui, in un’insolita formazione da viaggio, la moglie con il pick-up stracarico di vettovaglie per il tardo svernamento a Myrtle Beach, non proprio come il weekend da Varese a Varigotti. “La moto è il mio modo di essere libero” mi ha detto John mostrandomi con orgoglio i cilindri tirati a lucido. Pronto per la sua transumanza stagionale verso temperature ormai miti. 


© E. Bos
John Dale, veterano del Vietnam, incrociato mentre viaggiava con la sua Harley, e sua moglie in auto verso la South Carolina.

In branco 

Se i truck – gli autoarticolati – sono i bisonti della strada, loro sono le iene delle due corsie. Rigorosamente in drappelli. Rumorosamente in gruppo. Realisticamente baby-boomer. E, certo, a bordo di una Harley-Davidson. A parte John, di solito si muovono in branco. Come quelli che scorgo qualche ora più a sud non lontano da Orlando, quando ormai è già Florida e infradito. 
Non è una moto. Ma uno stile di vita, consacrato da Hollywood e dal suo Easy Rider alla ricerca di un’America “non trovata”. Un mito inscalfibile. Che non invecchia, come mi disse la coppia di amici, non esattamente un branco, incontrati l’estate prima davanti al Bear Claw Bakery and Coffee appena più in là del confine del Montana arrivando dal Parco di Yellowstone. Indossavano maglioncini troppo leggeri per l’alba imperlata di rugiada, ma erano decisi a far ruggire le loro Sportster 1200 in direzione ovest verso la più soleggiata California. Questo brand di motocicletta è l’incarnazione del sogno americano transustanziato in un oggetto di culto, ben oltre le speranze di William Harley e Arthur Davidson quando nel 1903 costruirono il primo modello a Milwaukee, in Wisconsin. Non solo per gli appassionati di motori, ma per l’immagine stessa del motociclista, immortalata nelle cromature della “Captain America” di Peter Fonda. E poi i gadget, il look. Persino la postura con la gamba allungata sulla pedana. Un vero collante identitario. Ma anche un traino economico. Il picco delle vendite fu nel 2006, prima del crollo delle certezze: 260mila esemplari venduti quell’anno. L’apoteosi dell’idea stessa di viaggio sconfinato. Persino se ti tallona la moglie col pick-up strabordante di valigie e l’immancabile cooler per le birre gelide (e le buste di pancetta affettata accanto alle confezioni già un po’ unte di burro d’arachidi). 


© E. Bos
ʻCasa dolce casaʼ, il motto dellʼAlabama campeggia nel ʻWelcome Centerʼ sulla Interstate 20 arrivando dalla Georgia.

Strade secondarie e libri cult 

Questi biker li incontri ovunque. Dalle Blue Star Highways in memoria dei caduti americani alle Blue Highways dell’impareggiabile William Least Heat-Moon. Strade secondarie su cui ha caracollato pure John Steinbeck in viaggio col suo birbante barboncino Charley. Non circolava su un chopper dal manubrio a corna di bufalo. Ma sul suo Ronzinante, un mezzo-camper mezzo-furgoncino bolso a quattro ruote. Omeri d’America, cantori dei paesaggi umani infiniti, sospinti dall’eterno desiderio di scoprire questo Paese attraverso l’incontro imprevisto nel mezzo di un nowhere springsteeniano sempre più in là, tra le pianure dell’Iowa e del Nebraska. 
E poi il popolo delle Harley-Davidson te lo ritrovi comunque ai Welcome Center da cui siamo partiti. Compreso quello dell’Alabama – “Sweet Home Alabama”, pare di sentirlo in musica il motto dello Stato scritto su un grande pannello – sull’Interstate 20 arrivando da Atlanta. Anche il più ruvido dei biker – l’ho osservato settimana scorsa – cede al richiamo di un beccheggio calmo sulle locali sedie a dondolo pronte all’uso sotto il portico del Center. È una carezza di Sud, poi via col vento, in faccia, di nuovo. Una coppia sulla sessantina osserva il biker coetaneo agghindato come per Woodstock con bandana stelle&strisce sotto il casco. Loro, pacati, sfogliano la pletora di volantini dell’Alabama esibiti come un museo delle antichità per l’ingresso nella culla dei diritti civili. Il “Centro d’accoglienza” sul lato opposto dell’autostrada – quando si taglia in orizzontale l’America come un hamburger da Birmingham stavolta verso Atlanta – ha prugni fioriti, aiuole con petali freschi e pure le “pet walk” , spazio per permettere ai cani al guinzaglio di alleggerirsi senza rischiare lo stritolamento sotto un Tir. Scorgo un signore dai modi affabili che passeggia col suo bastardino. Si chiama Bunny, mi spiega, e pur non avendolo mai visto mi ricorda il Charley di Steinbeck. 


© E. Bos
Il signor Big H (come Harold) incontrato nei pressi di Yukon in West Virginia. È un camionista appassionato della sua Harley-Davidson.

Biker pro o contro 

Anarchico, in canotta senza maniche, barba incolta. Un po’ stereotipo e un po’ caricatura. Ma tra chi viaggia in Harley-Davidson questo personaggio non manca mai. Anzi, di solito ce n’è più d’uno. C’è chi ha tentato di etichettare un popolo senza bandiera. “Bikers pro 45” (Motociclisti per Trump) c’era scritto sul biglietto da visita che mi allungò George “Godfather” Colella. Lo incontrai a una manifestazione pro-armi a Richmond, in Virginia, appena prima della pandemia. “Siamo qui per sostenere il presidente e il nostro diritto a portare la pistola”, mi disse. Per par condicio, esistono anche i Bikers pro-Biden. Senza pistola. Drappi e drappelli, ognuno i suoi. Confederato quello appeso sulla porta del piccolo garage del signor Big H, Grande Acca come Harold. L’ho incontrato una decina di giorni fa sulla Statale 16, appena oltre la ferrovia nei pressi di Yukon: non è solo il mitico fiume che sfocia in Alaska ma anche una località della West Virginia.
Big H è un camionista in divisa blu petrolio e persino un po’ olio. Di motore, of course. Quando finisce il suo turno al volante, usa un panno per lucidare la sua pepita qui a Yukon: una Harley-Davidson del 2008 con le borchie sulle borse di cuoio posteriori. La moglie – maglietta “Jesus help us” , che Dio ci aiuti – assiste il consorte con un secchio di acqua e sapone. A lui che guida anche il bisonte della strada, chiedo cosa significhi cavalcare anche la iena: “When you ride, you ride” , risponde. Quando sei in sella, sei in sella. 

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