Fanatismo da runner
In Italia anche la corsetta mattutina è stata sottoposta a forti limitazioni. Ma questo non giustifica i lamenti e la retorica di certi impallinati
Di Roberto Scarcella
In questi oziosi giorni casalinghi, al posto di farmi gli affari miei, imparare a fare la pasta fresca, cantare una compilation dal balcone o finire l’intero catalogo Netflix ho guardato molto (forse troppo) i social e ho trovato, nelle frasi scritte o nelle citazioni di scrittori fatte dai runner, esattamente quello che detesto della crociata dei runner. Che avrebbe un senso se fosse basata sempre e solo su un paio di concetti: “Corro da solo, evito i contatti, mi tengo in forma e giro al largo dalla gente”. Invece no.
Invece leggo che per molti – non tutti, per fortuna – la questione è un’altra. Loro devono poter correre perché correre è una cosa seria. Mica come tutto il resto. Correre è importante. Fondamentale. Correre è l’unica cosa che conta. Un bisogno superiore. Lo dice Murakami, lo dice Confucio, lo dice Forrest Gump, e perfino Linus, ah beh, se lo dice Linus. Ecco, proprio qui, in queste frasi tra il new age, la frase da Bacio Perugina, il mantra motivazionale e la supercazzola, dove credono di essere inattaccabili, lo diventano. Usando quella supponenza che sfiora il mistico e che unisce tutti i fanatici, che siano vegani, tifosi di calcio, fan di cantanti o, andando sempre più su – su come pericolosità – integralisti politici e religiosi.
Se ragionassimo tutti così, ognuno avrebbe il suo buon motivo di mettere le sue esigenze, le sue “cose che lo fanno star bene”, al di sopra della legge e – nel caso specifico – del vivere civile, del con-vivere.
La gente sta facendo sacrifici di ogni tipo. E rinuncia alle cose che la fanno stare bene. Per dire, trovo molto più insopportabile di una corsa in meno il sacrificio di un nonno nel non poter vedere – magari anche solo a distanza di sicurezza – un nipote per settimane o mesi. C’è poi lo schermidore o il judoka che non può andare in palestra o l’arciere che non può tirare con l’arco. Il motociclista che non può prendere la moto e andare. O il pescatore che non può pescare. Da solo, con la sua canna. Se li farà gli affari suoi un pescatore? È l’emblema del farsi gli affari suoi. Ricordo la maglietta di un pescatore con su scritto “se volevo fare conversazione, stavo a casa con mia moglie”. I tempi verbali della maglietta un po’ così, ma efficace. Ecco, più solitario del pescatore nessuno. E potrebbe pure citare a suo vantaggio Hemingway, Kipling o Melville. Altro che Linus. Magari anche a loro, tirare la lenza, la moto, di fioretto o al bersaglio regala gli stessi benefici mentali, psicologici e fisici che elencano i runner. Eppure non possono. Si lamentano, un po’ come tutti. Come è giusto che sia. E alla fine se ne stanno. Loro. I runner no.
E a stufare, alla lunga, è questa superiorità morale dei runner, come qualsiasi superiorità presunta. Fino a qualche anno fa erano una nicchia. Ora sono una voce, una comunità, una lobby, si potrebbe dire. Sono tanti e fanno rumore. Oltre a iniettare nel dibattito pubblico dosi di benaltrismo da far paura: “E gli uffici? E i padroni di cani? E quelli che fanno la fila al supermercato? E la metro? I bus? E il 5G? Gli unni? I tedeschi con i sandali? I dischi di Gigi D’Alessio? La fotosintesi clorofilliana? I trentatré trentini che entrarono a Trento tutti e trentatré trotterellando? Se non è un assembramento quello”
Avete sentito degli arcieri lamentarsi? Eppure ci sarà un arciere a cui girano le scatole perché non può esercitarsi o rilassarsi. A quel punto arriverebbe un runner a dire che il tiro con l’arco certo, nobile, Guglielmo Tell, Robin Hood, Legolas, bravi eh, però vuoi mettere la corsa bla bla bla bla. Dio mio, più ci si sente superiori a qualcuno e più si è uguali a tutti gli altri. Se non peggio.
E se fossi Murakami, così, anche solo per fargliela capire, inizierei ad andare in bicicletta.