Casa tua. Dedicato a mia madre
Quando una persona muore lascia un vuoto dentro e delle stanze piene. E capita che lo sgombero sia il miglior modo per congedarsi da lei.
Di Sara Rossi Guidicelli
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Svuotare la casa dei genitori. Fa paura a moltissimi. È un peso, un’intrusione, un dolore. Quante persone mi hanno detto di aver fatto fatica, di non essere riuscite a buttare o a tenere quello che volevano.
Ci sono famiglie che litigano, che si vendono tra loro i mobili, che non hanno lo stesso rispetto, la stessa leggerezza, o così sembra loro. Un fardello. Un momento di solitudine e polvere. C’era una signora, un’assistente sociale, che quando è andata in pensione mi ha detto: ‘Adesso vorrei fare quella che sta a fianco di chi deve sgombrare una casa. Curare quel distacco’.
Quando muore qualcuno non puoi tenere tutto, a meno di fargli il mausoleo. Se non hai le case di una volta, con la soffitta straripante, non puoi tenere quasi niente.
Devi guardare uno per uno ogni oggetto di una casa.
E può essere bellissimo. Se lo prendi come un viaggio sparato a razzo dentro a una persona cara.
I cassetti no
Per me è stato così. Sarà che sono ficcanaso fin da piccola: l’odore degli armadi della mamma, la pulizia irripetibile di casa sua, i segreti ovunque. Ho sempre aspettato che uscisse (soprattutto da grande) per frugare, toccare, provare. In bagno soprattutto: cremine, rossetti e quei rotoli di carta da gabinetto a sette veli che da studentessa rubavo convinta di aver risparmiato una fortuna.E la cucina: bustine di tè da portare via, i vasetti col coperchio d’oro che mi facevano gola (ma perché ne teneva così tanti? non era una di quelle mamme che fanno la marmellata). Invece mi compiacevo a sbeffeggiare il riso macrobiotico, la panna senza grassi e lo zucchero mascobado (già provato? rende amara qualsiasi cosa), per non parlare dello spruzzino contro le mosche «bio kill» e dei prodotti eco-sostenibili che arrivano dal Perù.
In camera mi provavo solo i vestiti, non ho mai osato aprire i cassetti.
Però. Quando è giunta l’ora di svuotare il suo appartamento, ho dovuto. Anzi, ho potuto, finalmente.
La casa vuota, luminosa, piena di silenzio, a mia disposizione. Nessun parente ad avanzare pretese: a me affidato il compito. Bene. Cominciamo. Dal bagno, naturalmente. Creme solari scadute negli anni Novanta, fazzoletti dappertutto, ancora segni della malattia. Facile: si butta quasi tutto.
La cucina. Pappine tristi davanti alla credenza e poi in seconda fila ecco che cominciano ad apparire i segni di una vita: mixer nuovi e antichi, formine da biscotti (eppure non era una mamma che faceva i biscotti), bicchieri per ogni tipo di vino e cognac, olio buono d’oliva, rotoli rotoli rotoli di carta alu, fiammiferi di ogni ristorante in cui è andata, candele (per quanto invecchierò non avrò mai il problema di dover comprare le candeline da compleanno).
Gli armadi delle pulizie, facile: trasferire tutto a casa mia, nella speranza che basti la presenza dei prodotti a tenerla pulita. E poi, finalmente, l’intimità: i libri, i vestiti, i classificatori. Le foto, i biglietti di Natale, i ricordi, le passioni.
A lei piaceva…
Dopo due anni di malattia (atroce, indimenticabile), finalmente la vita. Sessantotto anni di vita sana, piena di interessi, di alcuni dei quali non sapevo nulla. Ritagli di giornale: le piazze più belle d’Italia; come costruirsi la casa a zero impatto ambientale; Medio Oriente. Tutte le cassette con registrata La linea del cuore di Gualtiero Gualtieri su Rete Uno, anni e anni. Tutti gli articoli di Gianluca Grossi. Il Festival di Babel, ogni edizione. L’erbario completo di ogni pianta d’Europa in dodici volumi. Ma cosa non le interessava?
E tra i libri: cataloghi d’arte, pittori del Ticino e del Rinascimento. Storia locale e romanzi erotici. Wow. Trasferire tutto a casa. Donare alla biblioteca. Regalare a questo e quest’altro amico. Le cose che mi emozionano o mi servono le tengo; le cose più belle le regalo; le altre cose belle le metto su un letto e poi vediamo, chiedo agli amici di venire qui e scegliete pure. Il resto lo metto in grandi sacchi che porto alla Caritas: ogni oggetto deve vivere. I badanti mi aiutano e mi chiedono: raccontaci di lei, di quando stava bene. Che voce aveva? E sfogliamo gli album, ascoltiamo registrazioni, ridiamo della quantità di scarpe, collant, borsette, cartoline e mappette colorate. Portano via giacche, vestiti, bicchieri. Distribuiscono a sorelle, fratelli, figli, e so che onoreranno la sua memoria, sempre.
Alleggerirsi, alleggerirsi. Per me è un sollievo. Mi sento un palloncino con l’elio. A volte è peccato, ma cosa posso farci. Il museo non lo voglio.
Quali frasi hai sottolineato?
Nel frattempo quei due anni di malattia tornano al loro posto. Sono stati forti, ma erano solo due. Due su una vita ben spesa.
Comincio a capire qualcosa. Essendo figlia di psicologa ho sempre riso in cuor mio di tutto ciò che inizia per «psi». La casa è il simbolo dell’Io. Quante volte l’ho sentito? Ma che bla bla: la casa sono tre o quattro locali, un po’ di finestre. Al limite i tappeti. E invece… Comincio a capire: la casa sono i cassetti, il fondo degli armadi, le righe dei libri sottolineati. E quando mai ti prendi il tempo di spiare queste cose?
Mi è sembrato di fare una scoperta incredibile, ma a dirla sembra solo un’ovvietà: le persone sono fatte di tante cose. Giorno dopo giorno di questo sgombero che dura due mesi, scopro che una persona è tante persone stratificate per temi, angolazioni, periodi. Dietro ai pullover di lana c’è una scatola con le preghierine di quando mia mamma era una brava bambina cattolica. Poi un’altra con i biglietti d’amore. Di chi?
Poi c’è l’album del suo gruppo di Teatro, anni Settanta. I diari delle vacanze nel mondo a cercare le manifestazioni di protesta invece che i monumenti. Poi il suo lavoro come psicomotricista: giochi di legno e di musica. Più recentemente il lavoro con gli adulti, articoli di sessuologia da tutte le parti, mescolati alle bollette Swisscom, Billag, piani dell’appartamento e il libretto di famiglia che ancora non ho trovato. Forse è nella cassaforte che bisognerà spaccare perché il codice lo sapeva solo lei.
E i viaggi, le amiche, i progetti. Anche le liti: quei malloppi, in fondo all’armadio sotto alle canottiere di lana e la tuta da sci, li butto senza neanche guardarli. Quello non mi interessa.
Invece i referti della malattia li tengo, forse un giorno vorrò ripercorrere. Le stregonerie per cercare di farla passare invece mi fanno arrabbiare.
E in fondo a un cassetto, c’è una busta con scritto: «Se mi succede qualcosa, per favore buttare senza aprire». Forse non la aprirò mai, ma di certo non la butto. Magari me la tengo per quando sarà la mia ora, per farmi l’ultima risata insieme a lei.
Un regalo, ancora
E alla fine, in fondo in fondo a tutto, c’è la cantina. Dove tieni le cose che non vuoi tenere ma di cui non riesci a liberarti.
E nell’angolo più nascosto della cantina, dietro alle fotocopie dei biglietti di Natale più importanti (casomai andassero persi gli originali!), dietro alle foto più civettuole (ma quanto era bella? e lo sapeva), un poster arrotolato. La foto più meravigliosa. Sul rotolo c’è scritto solo quello che non serve: Linda, vestita da clown con poncho rosso. Ma chi gliel’ha fatta, dove, quando, non si sa.
Giovanissima. Buffa. Lontana ancora anni e anni da me e lontana mezzo secolo dalla sclerosi laterale amiotrofica. La vita bella davanti. Mia mamma come non l’ho mai immaginata: una ragazza che andava a divertirsi a Carnevale.