Sass in pé: ricordi di cime e di croci
La prima salita è una meta nascosta, come il significato del nostro stare al mondo.
Di Erminio Ferrari
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
La prima salita alpinistica del Sass in pé fu risolta in breve. C’era il Giuseppe intenzionato a portare una croce in cima a quel masso, e piantarcela, e infatti lo fece. Non ho ancora capito se in segno di conquista o per far sapere all’Altissimo qualcosa circa la propria opinione su ciò che stiamo a fare al mondo.
’Isacco, andiamo‘
Pochi, del resto, sanno dove si trovi il Sass in pé. È sul fianco di una montagna che chiude a est la valle alle spalle di casa mia, e emerge appena da una antica frana di massi, colonizzata e consolidata da faggi tenaci, ben più vecchi e forti di me che sono qui a raccontarla. I cacciatori, loro, sanno dov’è e lo usano come riferimento nel codice con cui discorrono. Devi passare appena sopra il Sass in pé, dieci minuti sotto il Sass in pé, sali diritto dal Sass in pé. Ma solo tra di loro, come di certi luoghi deputati a culti non di massa, non fosse che quello di svuotare un camoscio dalle interiora ancora fumanti. D’altra parte, anche Abramo non fece tanta pubblicità al luogo, quando scelse l’altura per sacrificare Isacco rispondendo all’ordine divino. Sono cose che abbiamo saputo dopo, di lui e di quel suo dio che aveva simili pretese. Un Dio, sta scritto, che qualche migliaio di anni più tardi, arrivò a sacrificare il proprio, di figlio, per dimostrare che non scherzava né si concedeva trattamenti di favore. La montagnola su cui avvenne quel misfatto oramai la conoscono tutti. Voglio solo dire che i luoghi in cui si prega o quelli in cui si rende il dovuto al sacro sono solitamente nascosti agli occhi dei più, almeno finché non vi irrompe il business della religione. Ma non è questo il caso.
Una fatica gratuita
E dunque il Giuseppe prese su il figlio quindicenne per condurlo a quell’impresa. Con le racchette ai piedi salirono una cresta innevata, fino a una sommità lucente dalla quale discesero lungo il fianco in ombra della montagna. S’era alla fine dell’inverno e, dato che c’era ancora parecchia neve accumulata alla base del Sass in pé, la salita non superava il tiro di corda. Ma di quelli impegnativi, per gente che preferisce ancora avere ai piedi gli scarponi e tentare di farcela a quella maniera. È un modo di pensare un po’ antiquato, ma deve dare del senso in più all’accostarsi alle difficoltà, quello di un faticare gratuito. E se devo pensare a un attributo della fede, è la gratuità che mi viene in mente, come mi insegnarono alcuni preti dei quali serbo un ricordo più che caro.
Quel papa no
Quanto poi al piantar croci in cima a una montagna, è una cosa che non farei. Simbolo di una chiesa revanscista, portate lassù più per disegno egemonico del papato che per una qualche devozione. Ma penso anche che ci sia una bella differenza tra un crocione di quelli che piacevano a un papa Leone del quale non ricordo l’ordinale (quelli sì strumento di tortura e morte: prima, dello sventurato che da quel legno chiese al padre perché l’aveva abbandonato; e da allora di tutti gli sventurati della Terra) tra un crocione, dicevo, e la modestia di due rami incrociati, autentici di fattura e disponibilità all’ignoto. E spesso vi pendono festoni tibetani di preghiera, in attesa che il vento la sparga sul mondo.
Braccia aperte
Comunque: un passo, un dito incastrato, una protezione alla volta, il Giuseppe si issò sulla punta di quel rustico obelisco di gneiss, senza dover far ricorso alle madonne. Non oltre lo stretto necessario, intendo. Poi calò la corda e vi fece legare la croce metallica, con data dell’avvenimento, le iniziali dell’artefice e tutto, e la tirò su. Quindi il figlio, tirato su anche lui, dato che la difficoltà superava la sua pur buona volontà arrampicatoria. Fissata la piastra basale con quattro bei bussolotti di inox, la croce del Giuseppe brillò del sole che infine aveva scavalcato la cresta del monte. La prima era stata compiuta, e c’era quel segno a testimoniarlo. Parve per un istante che gli venisse di tenere un nuovo Discorso della montagna, ma lasciò perdere.
Poco meno di mille metri più in alto, un’altra croce, sulla cima del Limidario, rifletteva la luce di un giorno di grazia. Quasi che da quelle braccia allargate sulla sofferenza del mondo nessun’ombra dovesse allungarsi sulle nostre domande senza risposte che non siano quelle di un fare vano, o forse gratuito, nel quale lo Spirito mostra la sua assenza per dirci che c’è. Che forse c’è.