I confini di Fausto Jurietti

Ricordi attorno a quella sottile linea che unisce (e che divide) Svizzera e Italia

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Per la maggior parte di noi, la frontiera è solo un luogo di passaggio. «Solo», si fa per dire: ché anche in tempi di libera circolazione, divise e gabbiotti sono lì a ricordarci che c’è un confine, che quella linea sulla mappa non è una cosa astratta; mentre quella lieve contrazione delle terga al momento del passaggio – anche se davvero non si ha «nulla da dichiarare» – ci ricorda l’autorità che quella linea la sorveglia. Di solito finisce lì: un paio di guardie che scivolano dietro al finestrino, scompaiono dal retrovisore e amen. E invece ogni tanto sarebbe bello scendere a parlarci, con chi quelle divise le indossa e sulla frontiera ci vive. 

Umanità e acqua minerale
Come Fausto Jurietti da Quinto, che ha fatto la guardia di confine per quasi quarant’anni. Non proprio sui valichi, a dire il vero: «Una volta c’erano i ‘posti centrali’: cinque o sei agenti a pattugliare il confine verde, anche da soli, anche a piedi: ogni anno cambiavo tre paia di scarponi. Ma mi piaceva stare all’aperto, in ufficio non mi ci vedevo».
Fausto, che mi accoglie con una gentilezza timida e si scusa subito per l’odore di sugo in cucina, ha iniziato il mestiere nel 1977 a Fornasette, vicino a Cremenaga. Poi «Stabio, Muggio, Ligornetto, Roggiana, Boffalora, Chiasso Strada, Via Cattaneo», un rosario di toponimi sul quale si sgrana anche il cambiamento sociale del cantone. 
All’inizio «c’erano i contrabbandieri che venivano dal Cancellone di Pedrinate. Passavano coi furgoni dai boschi, le chiamavano le vie di Ho Chi Min», dal nome del leggendario leader della resistenza vietnamita. «Ce ne accorgevamo vedendo la vernice delle carrozzerie delle strisciate sui tronchi. Nei vani nascosti dietro ai sedili trovavamo filetti, bottiglie di Vecchia Romagna. Oppure la carne sotto al cofano del motore». Era quasi un gioco di ruolo, nessuno si faceva male e quando si veniva beccati, si pagava la multa e si ripartiva dal via: «Le facce erano un po’ sempre quelle. Gente di lì vicino, che conosceva la zona. Prima mandavano avanti le staffette in motorino, e poi provavano a passare». Da nord a sud, intanto, «scendevano sigarette e accendini». Ma si potevano beccare anche gioielli – «una volta ne trovammo nascosti nei pacchi degli spaghetti Barilla» – o cose più strane: «Un contrabbando di acqua minerale Perrier dalla Svizzera all’Italia», vai a sapere perché.

Quella volta che sparai
Ma «capitava di fermare quelli che venivano a rapinare i distributori, a svaligiare le case. Paura vera però non ne ho mai avuta. Ho dovuto sparare una volta sola, quando un furgone cercò di scappare su un marciapiede e un mio collega ci si ritrovò sul cofano». 
Poi gli stupefacenti: «Soprattutto all’epoca dei canapai: venivano per portarla giù e dovevi fermarli, anche i minorenni. Ti toccava chiamare la loro mamma a casa, pensa a come si spaventava. Ti dispiace anche un po’, alla fine sei una persona come un’altra». Alcuni era anche facile sgamarli: «Alla fine ci fai l’occhio, lo vedi quando iniziano a tremare, a balbettare. Mi capitava di fare la perquisa e dirglielo: ce l’avevi scritto in faccia».

’Siamo tutte persone‘
Duri sono stati soprattutto i momenti di emergenza umanitaria, come durante le guerre in Jugoslavia. «Ne arrivavano anche in cinquanta o sessanta alla volta, i passatori li scaricavano appena dentro e loro dovevano aspettare che qualcuno li andasse a prendere. Mi ricordo una famiglia ferma sulla strada, che suonava la fisarmonica»; ma anche «un bambino piccolo chiuso in una borsa, un uomo senza gambe che veniva per il bosco sui gomiti». Non è stato più facile con la recente ondata di profughi, «denutriti, scalzi, con le loro quattro cose nei sacchetti di plastica».
Che si tratti di contrabbandieri o di povericristi, quello di guardia non è un lavoro che si fa da soli: «Da solo non sei nessuno. Devi imparare a lavorare in squadra, a motivare gli altri. Devi capire quando sono in difficoltà». Prima della disciplina militaresca conta l’affiatamento: «Valorizzare ciascuno, e prima di criticare gli altri, guardarsi allo specchio. E non montarsi la testa quando si sale di grado». Un atteggiamento collaborativo che passa anche dalle relazioni con le «altre» guardie, quelle di là dalla ramina, così chiamata, lo ricordo ai più giovani, perché una volta la frontiera era segnata da un’alta rete metallica con campanelli e sistemi di allarme: «Mi ricordo ancora di quando la Guardia di Finanza saliva a cavallo sopra Muggio». 
Alla fine, di una cosa Fausto non dubita: da una parte e dall’altra di quella linea immaginaria, «siamo poi tutte persone».

IL PERSONAGGIO
Fausto Jurietti è nato a Quinto nel 1956. Dopo alcune esperienze da cuoco, è entrato nelle guardie di confine nel 1977, diventando poi sergente e capo impiego. I suoi colleghi lo chiamano «Tapiro», «da una vecchia réclame di tappeti che girava in radio». Pensionato dal  2014, è sposato con Elisabetta e ha due figli, Mattia e Chiara. I suoi hobby sono il giardinaggio, la pesca, le passeggiate e il fai-da-te. 

 

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