Il cacciatore. Sul rispetto e la passione

Chi sono i cultori dell’arte venatoria? Cecchini della fauna locale o c’è dell’altro? Lo abbiamo chiesto a uno di loro

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Paolo è un cacciatore sulla sessantina. Cacciatore lo era suo padre e prima di lui lo è stato anche il nonno paterno: «Non l’ho conosciuto molto, ho solo vaghi ricordi dei suoi lunghi baffi e poi i racconti di mio padre che andava nei boschi con lui». 
Paolo vive a due passi da Locarno e ha poco tempo da dedicare alla sua grande passione. Ma la patente la prende tutti gli anni. Di caccia in famiglia si è sempre parlato e la si è sempre praticata nel rispetto della natura, degli animali e della sicurezza: «Soprattutto gli zii non volevano che toccassimo i loro fucili: guai a girarci attorno!» ricorda. 
Oggi Paolo fatica a commentare gli ultimi incidenti riportati dalla cronaca. Sì, la caccia non vive il suo momento migliore e le solite generalizzazioni non aiutano. Un aspetto che si somma a un palese disorientamento anche in seno alle associazioni sparse sul territorio, ci confida Paolo, strette fra tradizioni secolari, molta, «troppa» burocrazia, limitazioni e vincoli sempre maggiori. Ma la passione non muore.

Leggi e regolamenti
Quest’anno la caccia alta si è chiusa lo scorso 22 settembre. Quella bassa si aprirà il 16 ottobre. Di recente ha fatto discutere la modifica introdotta nell’ambito della caccia bassa, ovvero una moratoria sulla cattura della pernice bianca che, come comunicato dal Dipartimento del territorio, «fatica a sopportare l’aumento delle temperature medie causato dal cambiamento climatico in atto, (…) con una conseguente ulteriore diminuzione del numero di esemplari presenti in Ticino». Un’altra conseguenza, forse meno nota, dei cambiamenti climatici ai quali stiamo assistendo, più evidenti e repentini nelle regioni alpine. La decisione è d’altronde in sintonia con la legislazione venatoria, che tra i suoi scopi prevede «la salvaguardia delle specie in difficoltà». Non per nulla, anche nel 2019 le catture del camoscio sono state contingentate, azione che mira più in generale a tutelare e a incrementare la popolazione: si prevede l’uccisione di un massimo di 350 maschi, 350 femmine e 100 anzelli. «La modalità di prelievo per camoscio e capriolo è di 4 capi per cacciatore (massimo 3 camosci, di cui non più di 2 adulti)» indicava a luglio il Cantone; i cacciatori erano tenuti a informarsi sulle «modalità in vigore il giorno che precede ogni giornata di caccia». Stesso discorso per il cervo: massimo 225 fusoni (cervi maschi di 1,5 anni d’età), mentre è stato introdotto l’obbligo di «trasportare il fucile a palla nell’apposito fodero chiuso durante gli spostamenti con veicoli a motore». Per finire, la distanza massima di tiro è stata portata da 300 a 250 metri, innalzata da 1’200 a 1’600 metri la quota per l’impiego sui cani da ferma di dispositivi di localizzazione GPS durante i giorni aperti alla caccia al fagiano di monte. Ultima regola: «L’obbligo di cacciare la beccaccia con l’ausilio del cane da ferma, come già in vigore per il fagiano di monte». Se credevate che andare a caccia fosse un hobby della domenica, tanto per riempire qualche ora tra un aperitivo e l’altro, forse è tempo di ricredersi.

C’era una volta…
In Ticino si è sempre cacciato. Oggi le società attive nel cantone sono una trentina e tra gli scopi della Federazione cacciatori ticinesi – caccia-fcti.ch; nata nel 1995 dalla fusione di altre associazioni – vi è quella di «mantenere viva la tradizione della caccia promuovendo una sana ed efficace educazione venatoria» e «promuovere giornate con cacciatori e aspiranti per la tutela e il recupero degli habitat idonei alla fauna selvatica». 
Intenti e propositi che spesso non bastano a far digerire ai più l’ambiente venatorio. Dopo gli ultimi tragici eventi già ricordati – soprattutto la morte di un cacciatore a Pedrinate alle prese con un cinghiale –, il presidente della Federazione Fabio Regazzi ha risollevato la questione della «responsabilità personale», in particolare per l’uso di armi evidentemente mortali: «Oltre all’aspetto formativo, noi insistiamo (…) anche sulla sensibilizzazione.
A fronte di questi episodi dovremo comunque fare delle valutazioni per capire come possiamo ulteriormente migliorare la sicurezza: vedo da un lato delle misure concrete, per esempio l’obbligo per la caccia in battuta di indossare degli indumenti riconoscibili, controlli più rigorosi sui gruppi che praticano questo tipo di caccia e dall’altro un rafforzamento della sensibilizzazione sui rischi e i potenziali pericoli di cui si deve tener conto», si legge in un’intervista pubblicata nel portale della Federazione. 
Che la formazione e il rigore non manchino nel rilascio delle patenti lo conferma anche Paolo: «Ai miei tempi bastava sbagliare una manipolazione dell’arma durante l’esame che dovevi rifarlo: succedeva prima e so per certo che oggi sono ancora più puntigliosi, anche da un punto di vista tecnico». 

Statica e dinamica 
Nel 2018 le patenti rilasciate sono state 4’247 (di cui 1’802 per la sola caccia alta e 1’075 per la caccia al cinghiale). Cifre importanti, anche se in costante calo nell’ultimo decennio; erano 4’551 solo nel 2009. Il solito problema del ricambio generazionale, dicono in molti. Se sulla preparazione dei cacciatori non si sollevano obiezioni – e che i recenti fatti siano episodi comunque rari pare «un dato di fatto», come ha affermato Regazzi –, è forse sulle modalità dell’azione di caccia che varrebbe la pena riflettere. «Oggi è tutto più dinamico, la caccia non è statica come tramandato una volta di padre in figlio», sottolinea Paolo: «I cacciatori si muovono molto sul territorio, anche perché gli spazi sono sempre più ristretti; una volta camminavi tra le tue montagne, in aree e valli che conoscevi come le tue tasche. La preparazione della stagione iniziava settimane prima coi sopralluoghi, magari la creazione di passaggi dove muoversi, appostarsi. Tagliavi qualche fronda per evitare di fare rumore in previsione della ricerca e del migliore posizionamento». Paolo racconta e gli occhi si illuminano: «Eh, con l’età la passione cala. Ma mi ricordo da ragazzo, l’emozione degli esami per la patente, il cuore a mille spinto dalla voglia di iniziare, le serate con gli amici a discutere su come muoversi, dove costruire gli appostamenti, come mimetizzarli…». 
Paolo si dedica alla caccia col cane da ferma e in passato ha praticato anche la caccia al camoscio. Ma oggi predilige quella bassa: «Il rispetto profondo che un vero cacciatore ha per la natura e il territorio viene spesso sottovalutato, oppure nemmeno considerato. Chi si muove fra le proprie montagne non solo rispetta quello che gli sta attorno
– che poi è casa sua – ma sovente conosce e riconosce anche gli animali presenti nella zona. Maschi, femmine, nuovi nati, sa come si muovono, se è meglio non abbatterli, ci si scambia informazioni tra amici, anche sugli eventuali pericoli che nasconde il terreno». 
Alzarsi prima dell’alba nelle fredde mattinate autunnali, con poche comodità; devi avere qualcosa dentro per vivere certe esperienze? «Come no! E poi non è detto che vai, spari due colpi e hai fatto tombola. Io che mi dedico alla caccia bassa, a inizio stagione pago sui 300/400 franchi tra licenza, tessera sociale e assicurazioni». E quando va bene un appassionato si porta a casa una beccaccia o un fagiano di monte. Solo per la gloria, non certo per la ricchezza.

L’uomo e il cane
Il cacciatore non ama gli animali? Altra banalizzazione, che a sentire Paolo andrebbe rinviata al mittente: «Senza un buon cane non vai da nessuna parte, e sapete come vanno trattati i cani. Se uno odiasse gli animali dovrebbe dedicarsi ad altro, non certo a cacciare. Tra il cacciatore e il suo cane c’è un rapporto di complicità, direi di fratellanza. Ogni tanto riescono ancora a sorprenderti mentre vedi come si muovono e si posizionano per agevolarti, aiutarti a colpire nel modo migliore». 
Nel momento in cui si spara e si colpisce l’animale si sta uccidendo, gli facciamo notare. Come la mettiamo? «Posso capire chi ci rinfaccia questo. Ma per coerenza, allora nessuno dovrebbe mangiare nessun tipo di carne. Che alla fine, la maggior parte di noi, me compreso, acquista nelle macellerie e nei supermercati… magari senza nemmeno avere la più pallida idea di come e dove maiali, polli, vitelli o la stessa selvaggina vengano fatti crescere, trasportati e macellati. Se compri un animale ucciso con un colpo preciso in una battuta di caccia sai che la sua sofferenza è stata limitata a pochi istanti. E soprattutto sai da dove viene quella carne: non solo che è sana, ma che l’uccisione di alcuni di loro, soprattutto dei cinghiali, sta contribuendo alla gestione della fauna nelle nostre montagne». Un aspetto necessario, visto che molte valli e zone periferiche vivono un male chiamato abbandono. 

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