Wood Wide Web: gli alberi sono ‘in rete’
Le relazioni e i legami che le piante stabiliscono con l’ambiente circostante sono più numerosi di quello che pensiamo.
Di laRegione
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
I mesi più caldi portano verdi germogli che diventano fiori sui davanzali delle finestre, piante che spuntano dalle aiuole, altre che si divincolano tra le crepe del marciapiede. «Le piante sono vive, alla stregua di qualsiasi animale», afferma Olivier Hamant, ricercatore presso l’Università di Lione, «e come gli animali manifestano un comportamento. Basta guardare in modalità accelerata il video della crescita di una pianta per rendersene conto: allora ci si accorge che si comporta proprio come un animale» (Josh Gabbatiss, «Plants can see, hear and smell – and respond», BBC, 10/01/’17).
La differenza, naturalmente, è che le piante «vedono» senza avere occhi, sentono (o percepiscono le vibrazioni) in assenza di orecchie, generano impulsi elettrici in risposta a stimolazioni tattili pur essendo sprovviste di nervi e hanno memoria di alcuni eventi anche senza un cervello. Tutto sommato, sembra che disporre di un sistema nervoso sia una prerogativa sopravvalutata nell’ambito dell’evoluzione: questi organismi ne fanno a meno da sempre, eppure si adattano all’ambiente in maniera perfettamente efficiente. Fateci caso, la prossima volta che vi capita di contemplare una distesa di girasoli: superata l’euforia cromatica indotta dal giallo intenso delle corolle, notate come siano tutti voltati nella stessa direzione e chiedetevi «Cosa sanno questi fiori che io invece non so?».
Quel che una pianta sa (2012) è appunto il titolo di un libro di Daniel Chamovitz, biologo, direttore del Manna Center for Plant Biosciences all’Università di Tel Aviv e autore di sorprendenti scoperte nell’ambito della biologia vegetale. Per esempio, nelle piante si distinguono una trentina di fotorecettori diversi mentre noi umani ne abbiamo soltanto quattro: le piante possono «vedere» i raggi ultravioletti, che a noi risultano invisibili; hanno sei recettori per la luce blu, tre per la luce verde, sette per le radiazioni rosse e cinque per rilevare gli infrarossi. «Dal punto di vista delle piante», commenta Chamovitz, «siamo degli ipovedenti». Naturalmente, le piante non vedono forme e figure come noi, che abbiamo bisogno di scorgere i dettagli di quanto compare nel nostro campo visivo per individuare prede e predatori; loro, che si nutrono di luce, sono interessate unicamente alla direzione, all’intensità e alla durata delle diverse lunghezze d’onda. La sensibilità alla luce, più ampia e sofisticata della nostra, regola infatti lo sviluppo delle piante (fotomorfogenesi), consente loro di tenere traccia del tempo nell’arco delle ventiquattr’ore e in rapporto al periodo dell’anno (fotoperiodismo), le orienta verso – o lontano da – una sorgente luminosa (fototropismo).
Ancora più interessante è quanto emerge nell’ambito della comunicazione: vi è ormai evidenza scientifica del fatto che le piante «parlino» sotterraneamente l’una con l’altra attraverso le spore. Sono tutte interconnesse in un network micologico che consente loro di scambiare sostanze nutritive e informazioni, ma anche di sabotarsi reciprocamente, per esempio immettendo sostanze tossiche nel terreno. Questa «rete» è nota come Wood Wide Web (o Net) e sembra appunto che contempli la propria versione vegetale di «cyber-crimine».
«Tendiamo a identificare i funghi con la loro parte visibile, gambo e cappello, ma la maggior parte della loro massa si sviluppa sotto il livello del suolo ed è costituita da una quantità di filamenti sottili noti come micelio» afferma Nic Fleming, giornalista specializzato della BBC («Plants talk to each other using an internet of fungus», BBC Earth, 11/11/’14). Queste appendici colonizzano le radici della piante, il 90% delle quali intrattiene un rapporto mutualmente proficuo con i funghi (un consociativismo noto come «micorriza»). Le piante approvvigionano i funghi di carboidrati; in cambio, i funghi aiutano le piante a drenare l’acqua dal terreno, oltre a convogliare sostanze nutritive come il fosforo e l’azoto. I funghi non si limitano a favorire la crescita delle piante, ne potenziano anche il sistema immunitario perché il contatto fra le due specie stimola una produzione di agenti chimici difensivi che rende più immediata ed efficace la risposta a eventuali aggressioni da parte di organismi parassitari.
Tutto ciò era noto da tempo, ma negli anni Settanta Paul Stamets, esperto micologo, si accorge che la micorriza svolge anche un’altra funzione, quella di collegare le piante fra loro, seppure collocate a grande distanza l’una dall’altra. Le caratteristiche di questa rete gli sembrano simili all’Arpanet, la prima versione di internet, all’epoca in uso esclusivo al dipartimento della difesa degli Stati Uniti. Ci vogliono però alcuni decenni per comprendere quanto complessa sia la rete arboricola. Nel 1997, Suzanne Simard dell’Università di Vancouver dimostra che fra l’abete di Douglas (Pseudotsuga menziesii) e la betulla da carta (Betula papyrifera) avvengono trasferimenti di carbonio via micelio, e che i virgulti messi a dimora nell’ombra ricevono in media più carbonio di quelli piantumati al sole. Simard afferma che gli alberi più grandi e vecchi supportano quelli più piccoli e giovani, tanto che molti arboscelli non sopravviverebbero senza questo scambio «equo e solidale».
Oltre alle sostanze nutritive, la Wood Wide Net convoglia informazioni che potremmo definire «sensibili» ai fini della sopravvivenza. Nel 2010, Ren Sen Zeng dell’Università di Guangzhou ha scoperto che, quando le piante di pomodoro vengono aggredite da funghi nocivi, rilasciano nel micelio segnali chimici in grado di allertare le loro vicine, che si preparano anzitempo per respingere l’attacco: le piante «avvertite», in effetti, si ammalano di meno. «Questi risultati suggeriscono che una pianta di pomodoro è in grado di ‘orecchiare’ una risposta difensiva a distanza e incrementare la protezione contro agenti potenzialmente patogeni», afferma Zeng. Ma la pianta di pomodoro non è l’unica capace di reagire in questo modo: nel 2013, David Johnson dell’Università di Aberdeen ha dimostrato che le fave utilizzano a loro volta le reti fungine per segnalare minacce incombenti, come quella rappresentata per esempio da un afide affamato.
Tuttavia, proprio come accade nel caso delle darknet, anche la rete vegetale ha il suo lato oscuro. Per esempio, alcune piante sono sprovviste di clorofilla e quindi non possono produrre autonomamente energia attraverso la fotosintesi. Fra queste, l’affascinante orchidea fantasma (Cephalanthera austiniae) sottrae il carbonio di cui ha bisogno agli alberi più vicini proprio attraverso il micelio che li connette. Altre specie di orchidee «rubano» solo occasionalmente: nonostante siano capaci di fotosintesi, non disdegnano mezzi meno leciti per rimpinguare le scorte di carbonio. Ma c’è di peggio: poiché le piante devono competere per risorse quali l’acqua e la luce, alcune hanno imparato a rilasciare nel micelio agenti chimici capaci di danneggiare i propri vicini. Questo «antagonismo radicale» (sic) è noto da tempo nel caso delle acacie, di diverse specie di eucalipto e del noce nero, che produce una fitotossina di nome «juglone». Michaela Achatz, della Berlin Free University, ha fatto un esperimento posizionando vasi contenenti semi di patata e cocomero a varie distanze da un noce: alcuni erano penetrabili dal micelio mentre altri risultavano schermati. Dopo 25 giorni, i primi contenevano una percentuale di juglone 4 volte superiore e le radici delle piantine pesavano in media il 36% in meno di quelle protette.
«La Wood Wide Net esemplifica una delle grandi lezioni dell’ecologia», conclude Fleming, ovvero che «organismi apparentemente separati sono in realtà interconnessi e dipendenti gli uni dagli altri». In quest’ottica, gli alberi possono essere visti come parte di un unico super-organismo costituito dal bosco – o dal giardino – in cui crescono. Verrebbe inoltre da riflettere su come le realizzazioni tecnologiche più avanzate si rivelino spesso mere riproduzioni di qualcosa che la natura aveva già inventato: non solo l’arte ma anche la scienza imita il creato.