Le storie Enrica Dadò

Una maestra che racconta e si racconta tra fede e cime

Di laRegione

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Me la ricordo in un giardino di Faido, dietro al Convento dei Cappuccini, che volteggia tra i tavoli, in mezzo a bambini che giocano e poi fanno merenda e poi i compiti e poi giocano ancora. Purtroppo, quel ricco doposcuola con mille attività durante le vacanze e le serate non c’è più, ma Enrica Dadò continua a lavorare con i ragazzi nelle scuole. «Io non cambierei lavoro per niente al mondo, mi piace troppo stare con i giovani». Da ragazza amava la storia, la filosofia e l’archeologia e così, per mettere insieme tutti i suoi interessi, si è iscritta alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale a Milano. Vent’anni fa ha poi iniziato a insegnare religione nelle scuole medie; ora è docente sia di religione sia di storia. Dall’anno prossimo insegnerà anche storia delle religioni.

Cambiano i ragazzi, cambia il mestiere
«Negli anni mi sono adeguata alla pedagogia che vedo funziona meglio per chi mi ascolta. Cioè: un tempo gli allievi a religione discutevano moltissimo ed è esattamente quello che mi piace di questa materia, che permette di affrontare l’etica, la storia, la società. Gli allievi erano critici e facevano tante domande, sull’aborto, la chiesa, il papa, la sessualità. Criticavano la messa, mettevano in discussione tutta la religione. Mi piaceva prendermi il tempo di ascoltare, di lasciarli parlare, di provare a trovare risposte insieme, o altre domande, riflettendo. Poi hanno cominciato rapidamente a ‘spegnersi’. Non fanno chiasso, non sono provocatori, ma non fanno più nemmeno domande».
Da una decina d’anni per Enrica Dadò il cambiamento è evidente. I ragazzi si mostrano apatici e indifferenti a ogni tema, dal terrorismo all’immigrazione alla cultura. «La loro attenzione dura quanto un video su YouTube: 15 secondi. Alcuni non sanno nemmeno di che religione sia la loro famiglia. Non sanno niente del viaggio che ha fatto un compagno eritreo per arrivare qua, perché non ne hanno mai parlato. Quando andiamo in passeggiata e diamo loro un’ora libera non sanno dove andare, gironzolano nelle vicinanze di noi insegnanti e arrivano in anticipo all’appuntamento di ritrovo». Mentre inizio ad accasciarmi dalla depressione, l’energia di questa donna minuta e allegra mi risveglia. «Quindi bisogna diventare narratori. I ragazzi hanno un immenso bisogno di sentirsi raccontare delle storie. Parlo di Ikbal Masih, il bambino operaio pachistano, guardiamo insieme Malala, la ragazza che ha detto di no ai talebani, leggo brani di un libro su Shin Dong-hyuk, un giovane fuggito da un campo di concentramento in Corea del Nord. Se vedono un film sull’Olocausto si emozionano e allora partono le domande. Se racconto dei miei nonni, capiscono l’immigrazione. Se faccio raccontare a loro quello che hanno vissuto, ascoltano. Spesso mi chiedono ‘Maestra, raccontaci qualcosa delle tue figlie…’».
Le storie dunque. Quelle che fanno immaginare ciò che non si vede. Un’estate, insieme a un collega, Enrica ha costruito una barca nelle cantine della scuola, ha ricreato il rumore del mare e ha messo le corde e le candele. A settembre poi ha invitato i suoi studenti a giocarci, a provare il viaggio, a vivere l’esperienza. «Questo era per affrontare il tema della globalizzazione, che nasce dai viaggi di scoperta di Magellano e Cristoforo Colombo. Ma è ovvio che non si può sempre fare così…», sorride.

Se si riesce a stimolare i giovani
Secondo lei se si adatta con passione il proprio modo di insegnare, un riscontro positivo c’è eccome. «Io li bombardo ogni giorno. Ce la metto tutta. Credo che sia mio dovere morale di insegnante offrire loro conoscenza, spirito critico, strumenti per cercare risposte alle domande della vita. Credo che la qualità dell’insegnamento sia fondamentale, perché gli adolescenti non hanno voglia di ‘fare casino’, vogliono qualcosa da imparare per cui valga la pena impegnarsi e quando lo intravedono, allora prestano attenzione».
Dice Enrica che è fiera di vedere quanti altri docenti nella regione delle Tre Valli si prodigano per portare questi nuovi modi di stare in classe e di affrontare il sapere come il regalo di un’esperienza. Certo, anche i genitori hanno il loro ruolo: quando loro stessi spengono il telefono a tavola, quando possono portare in giro i propri figli a vedere un museo, un castello, un lago e non scattano solo fotografie ma si guardano anche intorno, allora trasmettono l’osservazione e la curiosità di porsi domande. «I ragazzi hanno perso l’abitudine di chiedersi perché. Di farsi raccontare dai nonni, dai genitori, dai libri. Di prendere posizione. Gliele abbiamo fatte perdere noi, queste abitudini. Ricevere troppe immagini fa perdere la capacità di immaginare per conto proprio. Allora, io ricomincio a raccontare storie».

IL PERSONAGGIO
Enrica Dadò, capo-scout, teologa, mamma, docente di storia e di religione, vive a Faido e lavora a Biasca e Lodrino con gli adolescenti, che adora. L’unica volta che ha alzato la voce in classe è accorso il direttore a chiederle perché urlasse tanto, ma lei stava solo impersonando Bartimeo quando voleva richiamare l’attenzione di Gesù. Usa il teatro, la narrazione e l’ascolto con i suoi allievi. Frequenta la montagna (da sola, in silenzio) e i festival di antropologia e filosofia del pensiero.

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