«A» come libertà
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Di laRegione
Sui muri delle città di lettere «A» cerchiate se ne vedono ben poche. Hanno lasciato il posto ai graffiti fatti ad arte e autorizzati dalle amministrazioni pubbliche, alle firme a caratteri obesi che fanno tanto rap, all’arte di strada diventata milionaria di Bansky e dei suoi emuli, a loro volta letture in chiave contemporanea degli omini colorati e agitati di Keith Haring e della cultura hip-hop americana. No, quelle grandi «A» cerchiate non vanno più di moda, battute il più delle volte da svastiche ben poco edificanti, buttate lì, con qualche commento che di provocatorio non ha nulla. Più che ammirare la ribellione giovanile e l’arte di «segnare» lo spazio pubblico, di questi giovani armati di bomboletta o indelebile che abbozzano simboli di morte e negazionismo hai un po’ pena: perché se lanciarsi alla rincorsa di un puerile ideale di anarchia significava per i più sovvertire l’ordine costituito, rifiutare i governi, liberalizzare le droghe e difendere un’idealizzata libertà personale – magari ascoltando gruppi musicali come i Crass, le Poison Girls e la scena più matura dell’hardcore, ma senza capirci molto –, riprodurre svastiche, teschi delle SS, croci uncinate e travestirsi da membri del Ku Klux Klan nel periodo carnascialesco non lascia dubbi sulla mancanza di buon gusto e rispetto che fa sorridere molti e stupisce pochi. Più che la voglia di sognare un mondo diverso, forse è una diffusa rassegnazione e comoda sedentarietà ad aver soffocato quel sano «spirito anarchico» che vorrebbe nuovi equilibri e maggiore rispetto per l’uomo e le sue individualità.