Essere anarchici in Ticino

Protesta e rivolta o tentativo d’essere autonomi e responsabili? Voci libertarie dal Circolo Carlo Vanza di Bellizona

Di Cristina Pinho

Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana

È una giornata invernale dalla cruda luce bianca e dai contorni netti, di quelle in cui le cose sembrano esistere con maggiore forza. A Bellinzona spira un vento gelido che fa tremare persino i pensieri. La mia predisposizione ad andare incontro al mondo non è delle migliori, tanto che a un certo punto mi perdo pure lungo via Convento e finisco a ridosso del cimitero. Ma poi sento un’utilitaria che posteggia; la portiera si apre e fanno capolino una sciarpa rossa e una cassa di mezzi di birra: è Enzo, che mi fa strada fino alla nostra meta e incuriosito mi chiede cosa mi abbia portata lì. «Ma ti lasciano scrivere su di noi?», reagisce alle mie spiegazioni ridendo.

Scendiamo nello scantinato e ricomincio a far pace con l’esistenza. Il Circolo Carlo Vanza – nato oltre 30 anni fa per conservare il lascito dell’anarchico e militante antifascista biaschese, e arricchitosi col tempo di innumerevole materiale sul pensiero libertario legato soprattutto a Ticino e Svizzera – ha una piccola ma fornitissima sede che fa da archivio, biblioteca e punto di ritrovo per incontri e presentazioni; ha traslocato più volte, ma da qualche anno è in pianta stabile nella Turrita. Al mio arrivo Peter e Cesj stanno togliendo dalle pareti la mostra su Giuseppe Pinelli, la cui figlia ha tenuto lì una conferenza qualche settimana prima. Pensandoci è proprio da Morte accidentale di un anarchico, la commedia di Dario Fo dedicata al ferroviere tragicamente defenestrato nel 1969, che anni addietro ho iniziato a gettare uno sguardo oltre alla riduttiva immagine a cui associavo il termine anarchia – che grossomodo coincideva con quella di «punkabbestia» (anch’essa poi rivalutata).

Attorno a un tavolo

Il posto inizia a riempirsi, come consuetudine al sabato pomeriggio, momento in cui apre le sue porte. Siamo una decina intorno al tavolo, l’età va dai 2 agli oltre 70 anni; al centro dei taralli fatti a mano, accanto l’ultimo numero fresco di stampa (il 44) del periodico ticinese Voce libertaria, che come indica l’editoriale raccoglie «spunti di riflessione e articoli di controinformazione, con uno sguardo antigerarchico e antiautoritario».

Ho pronte alcune domande da porre ai membri del Circolo, ma ben presto l’incontro prende la forma di uno stimolante confronto a ruota libera che si protrae per quasi tre ore. Inizio chiedendo se ci sia un diffuso fraintendimento intorno al termine anarchia. Prende la parola Peter: «Rispetto al passato, meno. Negli ultimi decenni c’è stato un cambio di valutazione nell’opinione generale per il fatto che alcuni importanti personaggi pubblici come Fabrizio De André o Noam Chomsky definendosi anarchici hanno contribuito a riconfigurare l’immaginario comune rispetto al movimento». Infatti per tanti anni l’anarchico è stato fatto combaciare col «bombarolo», anche se, spiega Claudio, «è vero che c’è stato il periodo delle bombe, ma è circoscrivibile a un determinato momento storico in cui un po’ tutti le mettevano; a noi però è rimasto addosso questo cappellino perché non ci siamo istituzionalizzati».

Eguaglianza nella libertà

Veniamo alla definizione: anarchia vuol dire assenza di comando, di capo, di governo; il movimento anarchico ritiene la distribuzione ineguale del potere l’origine principale della disuguaglianza sociale e sostiene un’organizzazione della società non gerarchica e non autoritaria, quindi priva dello stato, dove tutti gli individui possano autodeterminarsi. «Una cosa che mi ha subito colpito dell’anarchia – dice Enzo – è il fatto che considera libertà e uguaglianza valori inscindibili. Noi per anni siamo cresciuti con il modello liberale occidentale che professa la libertà e nega l’uguaglianza, e con quello dell’ex blocco comunista che voleva tutti uguali ma non liberi. La grande intuizione di Michail Bakunin è invece che l’umanizzazione della società avviene per mezzo della libertà nell’uguaglianza».

A turno spontaneamente ciascuno prende la parola per spiegare cosa significhi per sé anarchia. Al di là della base di pensiero comune, infatti, si tratta di un vasto e complesso universo di posizioni. Ciascuno parla a titolo personale (d’altronde viene rifiutata la delega, anche in politica); «non siamo un gruppo anarchico e non siamo neanche gli unici in Ticino a far riferimento a questo movimento» è la premessa. «Per quanto mi riguarda – valuta Peter – praticare l’anarchia significa la possibilità per me, e per chi lo desidera, di allacciarci a esperienze di autogestione, di produzione alternativa, comunitarie; valorizzarle partecipandovi direttamente e divulgandole, mostrando che esistono modi per attuare i nostri sogni, che sono vivi e presenti nella società». «Per me vuol dire cercare di essere libertario il più possibile in ogni momento della giornata – dice invece Claudio –, da quando faccio la spesa in cooperativa a quando sono sul lavoro o con la mia famiglia».
I miei interlocutori non sono tipi da Gioia armata o Distruzione necessaria. Irriducibili sì, ma la rivoluzione è quella che si attua nel quotidiano. Questo non significa che quando c’è bisogno di protestare non lo facciano. «C’è bisogno ogni giorno di denunciare, di essere militanti contro, perché ci sono delle ingiustizie da eliminare o scongiurare – sostengono –. Siamo ad esempio in prima fila nel Coordinamento contro il Centro educativo chiuso per minorenni previsto a Castione, una struttura basata su misure restrittive, carcerarie e punitive», dice Gianpiero.

Corre, corre la locomotiva

In merito alle differenti posizioni Peter e Claudio spiegano: «Nel variegato movimento anarchico esiste tra le tante una corrente insurrezionalista, minoritaria, che giustifica un certo tipo di azione diretta, di sabotaggio: soprattutto in passato l’idea era di accendere la miccia della rivolta. Ma dietro queste forme c’è talvolta una sorta di disperazione esistenziale; è il famoso macchinista della ‘Locomotiva’ di Guccini che esprime proprio questa esasperazione, il ‘non ce la faccio più, sono troppo bastardi, devo fargliela pagare’. Non è una bella via per nessuno, né per chi la prende, né ovviamente per chi la subisce. Sono strade di disperazione, non di crescita. Ma questa reazione, questa rivolta un po’ camusiana, è comunque da imputare al sistema, che è violento e genera violenza; il pacifismo è una costruzione che dobbiamo farci noi». Aggiunge Gianpiero: «Hai davanti tutte persone che hanno rifiutato l’esercito svizzero come obiettori di coscienza. Ma c’è lotta e lotta secondo i nostri modi di vedere, per esempio: per solidarietà molti anarchici nel 1936 sono andati in Spagna, hanno aderito alla lotta antifascista; anche adesso nel Rojava in diversi sono partiti in sostegno dei curdi massacrati da Isis e Turchia, portando un contributo non solo militante ma anche militare, in difesa di un territorio dove si sta costruendo un certo genere di esperienza di emancipazione, autonomia e uguaglianza».

Il dibattito si arricchisce di un’altra voce, quella di Petra: «Io l’anarchia l’associo fortemente al concetto di responsabilizzazione. E mi rendo conto che fa paura anche per questo motivo, perché è difficile prendersi la responsabilità, fare delle scelte e accettare le conseguenze. Penso ad esempio al mondo lavorativo: è più facile dire sono sotto a un capo, ricevo la mia paga, non mi riguarda ciò che produco e le sue ripercussioni. È più semplice essere governati». Peter va ulteriormente a fondo: «Prendiamo il controverso tema del reddito universale di cittadinanza: ci si lega ancora di più a uno stato che deve generare produttività, consumi, sprechi per poter arrivare a quella soluzione. Ma così contribuiamo allo sfascio del pianeta». Dunque non è solo questione di difendere i diritti dei lavoratori e di chi sta ai margini, ma di interrogarsi sui temi chiave della produzione, della distribuzione e del consumo. «Il mondo non cambierà dall’oggi al domani ma possiamo iniziare a farlo tra di noi», è il pensiero condiviso.

Il litigio (non violento)

Il Circolo però non vuole essere una cripta, precisa Claudio, «ma portare una riflessione, un dialogo su come vivere meglio con chi ha voglia di raggiungerci, senza pretesa di evangelizzare nessuno. Personalmente, in una realtà spesso difficile da tollerare, sapere che esiste un posto così, di scambio e di stimoli, dove trovarsi e stare anche bene insieme trascorrendo pure momenti di leggerezza, a me dà una forza incredibile». Monica, infine, mette sul tavolo il concetto di passione, e rilancia: «Io faccio parte del Circolo perché ci sono delle relazioni viventi, non delle ideologie. Io ho sempre cercato di portare punti di vista un po’ spiazzanti, perché fa bene anche percorrere le contraddizioni, è arricchente. A dir la verità un po’ qui mi manca il litigio, ci si vuole troppo bene, dovremmo mandarci di più a quel paese». «Talvolta succede – mi confessano –, mani sul muso mai però», e scoppia l’ennesima, coinvolgente risata.

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