Oltre i gattini: la nuova informazione digitale
Mentre le testate tradizionali lottano per la sopravvivenza, anche in Svizzera nascono soluzioni ‘digital only’.
Di laRegione
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
Leggendo l’articolo di qualche settimana fa, qualcuno di voi avrà pensato che nel mare magnum del giornalismo, delle sue tante forme contemporanee e delle continue crisi, a passarsela bene sono i siti di informazione nativi digitali. Loro sì che sanno come muoversi con redazioni giovani, tecnologiche, snelle e costi di produzione ridotti rispetto alla grande macchina dei giornali. Non è così, anche qui vale la filosofia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto e, dopo i primi successi e le prime intuizioni pionieristiche, qualcosa inizia a scricchiolare. È di queste settimane la notizia che Buzzfeed, sito di informazione e intrattenimento con sedi in tutto il mondo, 300 milioni di dollari di ricavi nel 2018, taglia il 15% dei posti di lavoro, circa 250 dipendenti su un totale di 1’450. Una notizia che si somma ai tagli nella divisione media di Verizon e a Vice Media e per cui c’è già chi, come
Il Sole 24 Ore, parla di un «bagno di sangue per i media digitali». In un attimo si sono polverizzati un migliaio di impieghi e si teme non saranno gli ultimi.
A questo si aggiungono nuove iniziative come la piattaforma Open (open.online) di Enrico Mentana a insegnarci che anche online non tutte le ciambelle riescono col buco. Sembra infatti che non siano stati sufficienti il nome e la notorietà del direttore del Tg de La7 a far decollare il progetto, tanto meno le nobili intenzioni espresse in un post su Facebook qualche mese fa: ridare ai giovani e al giornalismo un po’ di quella fortuna e opportunità date a lui nel periodo d’oro della professione: «La generazione degli anni Cinquanta e Sessanta ha potuto realizzare il sogno di fare i giornalisti, quel che è ormai precluso anche ai più bravi tra i giovani di oggi». Presentata al pubblico il 18 dicembre 2018, Open, testata online gratuita di informazione, vede la direzione di Massimo Corcione, vicedirettore di Mentana ai tempi del TG5, la vicedirezione di Serena Danna, già firma del Corriere della Sera ed esperta di nuove tecnologie, due redazioni, una romana e una milanese, per un totale di 25 giovani giornalisti, nemmeno trentenni, assunti a tempo indeterminato. Qual è il suo business model? La società editrice GOL, Giornale On Line, è una srl a impresa sociale, senza fini di lucro, di cui Mentana è socio al 99%, mentre la raccolta pubblicitaria è affidata ad una delle concessionarie di Urbano Cairo.
L’idea di Open è offrire uno strumento di informazione per tutti, in particolare per le nuove generazioni. È aperto al nuovo, a tutte le idee, a tutti i contributi e punta a raggiungere un milione di lettori al giorno, trenta milioni in un mese. Per intenderci, sarebbero poco meno di quelli che ha La Gazzetta dello Sport e per ora si tratta più di un lontano miraggio visto l’ottimismo dello stesso Mentana, che ha investito 250mila euro di tasca propria per pagare gli stipendi nei primi mesi: «La cosa più probabile è che in questa operazione ci perda, anche tanto, certamente non ci guadagnerò».
Insomma Open non ha fatto il botto, si parla già di flop e di cambio direzione, e c’è chi, come Valerio Bassan, responsabile della strategia digitale e prodotto nei media per Forbes, lo aveva detto sin da subito in un post su Facebook: «Il principale problema di Open è che eredita il difetto originale dei legacy media: non è concepito né gestito come un prodotto che deve conquistarsi un mercato e sopravvivere al suo interno. (…) Qualsiasi nuova iniziativa in ambito media – sia essa un podcast che parla di tennis o un mensile cartaceo che si occupa di fashion – deve obbligatoriamente rispondere a una domanda: il prodotto che stiamo per lanciare risolve un problema? Fornisce un servizio? Qual è la ‘unique value proposition’ che differenzia Open da competitor con più storia, risorse e pubblico? Ma soprattutto, quale segmento di utenti si propone di raggiungere?».
In quella formula, tutto per tutti e in particolare per i giovani, non sembra esserci spazio per le domande di Bassan e l’esperienza di Open dimostra un fatto: anche per le testate native digitali non è facile stare al mondo, soprattutto in un momento in cui per generare ricavi, trovare e tenersi stretti i lettori non basta più la legge dei click, dei gattini, delle breaking news e della quantità a discapito della qualità.
Di qualità nel giornalismo ne sa qualcosa De Correspondent (decorrespondent.nl), testata olandese lanciata nel 2013 con una raccolta crowdfunding record di 1,7 milioni. Nata dall’idea di due giornalisti dell’NRC Handelsblad, Ernst-Jan Pfauth e Rob Wijnberg, intenzionati a rivoluzionare il concetto di informazione, De Correspondent punta a instaurare una conversazione più profonda con i lettori libera da compromessi. Questo si traduce in un giornalismo digitale online senza pubblicità che mette i lettori al centro, contenuti che non sottostanno alla legge del flusso di notizie mainstream ma selezionati nell’ottica di un giornalismo che aiuta a comprendere meglio cosa accade nel mondo a un costo di 7 euro al mese o 70 euro l’anno. Sono una trentina i giornalisti che vi collaborano ognuno con una specializzazione tematica; una nota sul sito specifica che i dati degli utenti sono sicuri e non vengono venduti a terzi e c’è assoluta trasparenza sui conti della testata. Così 5 anni e 60mila membri dopo De Correspondent sbarca negli Stati Uniti con una versione inglese (thecorrespondent.com) e replica con una campagna crowdfunding che porta a casa 2,5 milioni di dollari in 29 giorni. Il sito partirà a settembre 2019. Tra gli ambasciatori del progetto c’è anche Jay Rosen, professore di giornalismo alla New York University: «The Correspondent parla direttamente ai lettori senza intermediari pubblicitari. Il suo scopo non è attirare l’attenzione, fare click, portare a casa scoop, ma conquistarsi la fiducia dei lettori.
È un progetto che può fare la differenza». Per ora a crederci sono 42’780 membri fondatori provenienti da 130 Paesi, ma nuovi membri possono entrare a far parte del movimento in ogni momento scegliendo di pagare la quota che meglio conviene loro. «Crediamo che il giornalismo debba essere accessibile a tutti», dice Wijnberg.
Tra i siti nativi digitali che hanno fatto il botto sin da subito, e non per i contenuti di qualità, c’è BuzzFeed (buzzfeed.com),
nato nel 2006 dalla mente di Jonah Peretti che più di chiunque altro ha capito come funziona la Rete. BuzzFeed è diventato famoso in poco tempo grazie ai suoi articoli che sembrano delle liste della spesa, la smania dei gattini e la diffusione virale dei contenuti fatta di tam-tam sui social network, clickbait (la caccia ai click) e native advertising (ovvero, contenuti pubblicitari realizzati per integrarsi perfettamente – e a volte confondersi – coi contributi editoriali). Il 50% del suo traffico viene dai telefonini: «Se un contenuto non è visibile sugli smartphone, allora non può diffondersi», dice Peretti. Qualche anno fa il sito ha toccato la punta dei 130 milioni di utenti unici al mese e nel 2014 ha ottenuto 50 milioni di dollari da Andreessen Horowitz, che ha investito in tutte le big tech company senza sbagliare un colpo. Nel 2012 con l’assunzione di Ben Smith, ex giornalista di Politico.com, il sito dei gattini, dei quiz e dei gossip ha aperto anche al giornalismo investigativo di qualità, assumendo man mano altri giornalisti affermati e aprendo sedi estere da Londra a San Paolo.
Per anni considerato il modello di news online da imitare, BuzzFeed a inizio 2019 ha annunciato che lascerà a casa il 15% dei suoi dipendenti, ridimensionerà le redazioni e riorganizzerà il proprio management. È il segnale che anche l’informazione online lotta per trovare un modello di business sostenibile, in un settore le cui risorse pubblicitarie e tutta l’attenzione sembrano catturate dai soliti noti: Facebook e Google. BuzzFeed e molti altri pagano per aver puntato sulla rapida crescita degli introiti pubblicitari ora cannibalizzati dai giganti dell’hi-tech. Come riporta Wired, «Google e Facebook vedranno i propri introiti pubblicitari crescere del 75% tra il 2017 e il 2020, contro il 15% di tutte le altre società di news online. Questi colossi hanno qualcosa che i giornali non sembrano avere più: un pubblico fedele, costante, in crescita. E i pubblicitari non cercano altro».
Abbiamo dato un’occhiata a cosa succede nel mondo, ma cosa succede in Svizzera? In Svizzera c’è Republik, la testata zurighese che ha avuto successo di pubblico e di critica sin da subito, da quando nel 2017 lanciò la campagna crowdfunding promettendo di fare la rivoluzione con i lettori e di salvare la democrazia in un Paese nel quale la pluralità di opinioni e una certa idea di fare giornalismo sono messi a rischio dalla concentrazione mediatica. La campagna stabilì un record, 3,4 milioni di franchi raccolti in poche settimane che si andavano ad aggiungere ai soldi messi sul piatto da altri investitori, primi tra tutti i fratelli Meili. Alla fine Republik nel 2018 ha tagliato il nastro di partenza con 5,9 milioni di franchi e 17mila abbonati, saliti nel corso dell’anno a 7,5 milioni di franchi e 24’500 abbonati. Nel frattempo è cresciuta anche la redazione, 50 collaboratori, 36 a tempo pieno, troppi forse per una start up che offre un prodotto di nicchia e inizia l’anno nuovo con qualche grattacapo. Solo il 61% dei membri fondatori ha rinnovato la sottoscrizione e la nave per stare a galla deve poter contare su 27mila abbonati. Si inizia dunque a tirare qualche remo in barca: Republik investirà di più sul marketing, taglierà il 10% dei costi, cerca nuovi investitori e pensa di espandersi sul mercato tedesco.
Tante idee (per non morire)
Staremo a vedere cosa succederà, ma resta un fatto: Republik più di qualunque altro progetto ha saputo osare e scuotere il mercato dei media svizzeri. Un anno fa tutte le testate ne parlavano, lo stesso oggi, c’è grande interesse per un’iniziativa che per la prima volta nel nostro Paese ha saputo coinvolgere e mettere al centro i lettori instaurando con loro un dialogo trasparente, aperto e costante.
Il team di Republik ha saputo innovare nella forma e nei contenuti puntando su reportage internazionali, giornalismo d’approfondimento, inchieste locali, rubriche eccezionali come quella di Sibylle Berg «I nerd salvano il mondo». E poi i podcast audio e le dirette video di dibattiti su temi di attualità con ospiti e moderatori del calibro di Roger de Weck. Il prodotto naturalmente è migliorabile e se i conti non tornano è un problema. Ma in molti, come il responsabile della cultura del Tages-Anzeiger Philippe Zweifel, che ironico ha scritto «se la democrazia scomparirà sarà colpa vostra», ci credono ancora. E data la spirale negativa nella quale i media svizzeri si trovano – lo ribadisce l’ultimo rapporto annuale sulla Qualità dei media dell’Università di Zurigo – nuovi progetti digitali indipendenti come Heidi.news (heidi.news) sono in arrivo. La campagna abbonamenti per la testata che andrà online in primavera è già partita, 160 franchi è il costo di un abbonamento annuale. Avrà due versioni linguistiche, francese e inglese, una versione online e una di approfondimento stampata. Promette di essere un prodotto audace e necessario capace di ridare dignità ai giornalisti e voce al giornalismo in una regione, quella della Svizzera francese, nella quale la stampa indipendente e plurale da tempo è sotto scacco.
Insomma, il mercato si muove e le offerte online crescono, motivo per cui le grandi e consolidate testate debbono fare uno sforzo e reinventarsi se non vogliono perdere i loro lettori in un panorama sempre più ricco non solo nei numeri, ma anche nella qualità e varietà dei contenuti. Tenendo presente ancora una volta quanto ci dice lo studio sulla «Qualità dei media» e cioè che non solo il mercato pubblicitario si restringe ma anche quello dei lettori disposti a pagare e a consumare informazione di qualità. In Svizzera cresce infatti quella fetta di persone (sarebbe il 36%) che si informano solo sporadicamente, non consumano contenuti di qualità a pagamento e non riconoscono il valore aggiunto dei grandi e consolidati brand.
Vi ricordate il nostro bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto con il quale concludevamo l’approfondimento dello scorso 15 febbraio? Alla fine, rimane forse una sola verità: il giornalismo di qualità in futuro sarà un prodotto di nicchia per quei pochi ma buoni lettori e investitori che ancora credono nell’informazione e nella sua forza per una democrazia e una società migliori.