Cose che capitano a Las Vegas
“Se qui ci fosse ancora la mafia, non avrei dovuto cercarmi un lavoro in politica”. Due passi fra casinò e atomiche
Di laRegione
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.
L’Atomic Liquors è mezzo pieno. Tutte le TV sono sintonizzate sulla finale del campionato di hockey, che la squadra di casa si gioca contro Washington. Durante lo show prepartita – un delirio di cavalieri medievali, draghi, fuoco e spade – chiedo al barista cosa ne pensi la gente locale di tutto ciò: la squadra è stata fondata nemmeno un anno fa, inventata di sana pianta, e poi si presenta a tutti con questa baracconata a metà fra Disneyland e il varietà da casinò. La risposta è immediata: «That’s who we are». Siamo fatti così. «Una città inventata e impossibile, assolutamente fuori da qualsiasi normalità». Me lo dice così, senza pensarci, come se mi stesse descrivendo il colore dei muri. Schietto e fattuale. Alla fine vince Las Vegas, la città che ha portato pattini e ghiaccio in mezzo al deserto, così come prima ci ha tirato su la Mecca del gioco d’azzardo e dello show business. Ovvero senza troppi riguardi verso chi le rimprovera di non avere una storia, un passato.
A nord di Downtown, il vecchio centro cittadino, c’è ancora il primo edificio che ha dato vita alla città, il forte. Malgrado l’immagine di città libertina, dedita all’alcol, al sesso e al gioco d’azzardo, Las Vegas fu fondata dai mormoni, che pensavano di usarla come tappa d’appoggio sulla via da Salt Lake City a Los Angeles. Benché evochi deserti e cactus, la città è in pianura e pertanto si addiceva alla sosta più degli speroni rocciosi e dell’aridità assoluta dei dintorni. I mormoni non ci rimasero a lungo, ma ci fu un piccolo boom col transito ferroviario. Poi, a partire dagli anni Trenta e con la costruzione della diga di Hoover – che portò in zona una folta manovalanza – la città si espanse con bar, saloon, casinò e alberghi. A inizio Novecento Vegas era praticamente inesistente; dal 1950 la popolazione è raddoppiata ogni dieci anni e oggi supera i 2 milioni di persone. Senza contare i trenta milioni di visitatori che ogni anno arrivano qua a lasciare i loro soldi, un po’ di fegato e magari anche una scheggia di cuore.
Il gioco d’azzardo arrivò a Las Vegas quasi per caso, ma crebbe nel dopoguerra, specie dopo che Cuba chiuse i battenti alle scommesse e allo show business americano che andavano a braccetto con la dittatura di Batista. Una buona parte dei profitti e degli investimenti si trasferì in Nevada, in parte grazie alla mafia italo-americana ed ebreo-americana: Meyer Lansky, Lucky Luciano e tanti altri. All’inizio gli alberghi-casinò fungevano da investimento per i soldi sporchi guadagnati sulla costa est, ma ben presto si rivelarono miniere d’oro, al punto che vari proprietari li costruirono per scappare con una valanga di profitti, senza preoccuparsi del dopo. Ma fino agli anni Settanta si guadagnava talmente bene che si potevano costruire edifici faraonici e ospitare gente come Frank Sinatra ed Elvis Presley. Svanito l’interesse per quel tipo di pazzie, e dovendo fare i conti con Atlantic City come rivale, Las Vegas si è reinventata a inizio anni Novanta, sostituendo il vecchio abbinamento fra gioco d’azzardo e varietà con una formula nuova, più luccicante e abbagliante: il megahotel che integra casinò, centri commerciali, sale concerti, teatri e centri per conferenze. Gli alberghi che hanno spalancato le porte a questa seconda vita sono ancora lì. Altri hanno cambiato nome reinventandosi varie volte. Oggi la città è più pulita, non c’è più il crimine, e come disse Oscar Goodman, avvocato di mafiosi e poi per lunghi anni sindaco di Las Vegas: «Se qui ci fosse ancora la mafia, non avrei dovuto cercarmi un lavoro in politica». Lo Strip – luccicante, sicuro e senza macchia – ne è la prova.
Ma oltre lo Strip, un po’ fuorimano rispetto ai circuiti obbligati del flusso turistico, sopravvivono ancora le venerande vestigia della Vegas che fu. Come l’Atomic Liquors, appunto. Ci si trovano perlopiù impiegati degli alberghi dopo il lavoro, giovani che lavorano nelle varie ditte di tecnologia dei dintorni e impiegati dell’amministrazione locale o dei tribunali. Una volta Hunter Thompson veniva regolarmente a sbronzarcisi, e a quanto pare pure a scrivere: fu lui che celebrò la città – e per sineddoche l’intera America – nel suo Paura e delirio a Las Vegas. Il nome del bar non è casuale: a pochi passi da qui si facevano esperimenti con le bombe atomiche, e dal terrazzo dell’Atomic Liquors si aveva un posto in prima fila per lo spettacolo. Magari prima o dopo una partita di poker a Downtown. Pazza com’è, Las Vegas si godeva pure le esplosioni dell’atomica.
Le vecchie insegne neon degli alberghi vivono qui, in questo cimitero della luce da visitare
la notte, quando lo splendore antico rinasce con colori e design sproporzionati all’ambiente, come se soffrissero a stare posati per terra invece di stagliarsi sul cielo della città.
A meno di un’ora dal centro, è un monumento dell’ingegneria, ma anche l’inizio della città,
in un certo senso. L’imponente diga degli anni Trenta fornisce ancora oggi acqua e luce a molte zone del Sudovest Usa.
Un museo della mafia, in un posto così, non può che essere anche un museo di storia cittadina. Creato di recente, racconta l’età d’oro di Las Vegas e le sue successive trasformazioni.
Vecchia steakhouse che sopravvive ai margini dello Strip, una volta frequentata dal rat pack e dai personaggi in voga, oggi più o meno da residenti o amanti della storia.
Aperto 24 ore su 24, è un vecchio ritrovo per cantanti e artisti dopo il turno ai casinò. Ormai è sporco e mostra l’età, ma è un bar in cui ci si augura di continuo che le mura si mettano a parlare.
Per appassionati di Hunter Thompson o dei trascorsi di una città impossibile, è un posto dove soffermarsi per una birra o un Old Crow, il bourbon dozzinale amato dallo scrittore.
Ospita la sfilza di cappelle nuziali per i matrimoni veloci e le chiese in stile «drive-in» che si vedono nei film; esistono davvero, sono funzionali, piccoli monumenti all’incoscienza e all’allegria di una notte. In barba ai rimpianti del giorno dopo.