‘Ti ringrazio per avermi stupito’

Dalla, Guccini, Bennato, De André: il repertorio dei cantautori italiani, sbarcati in Ticino, come immaginario condiviso. Dedicato a chi non c’era

Di Mauro Stanga

Pubblichiamo l’editoriale apparso su Ticino7, allegato a laRegione

I cantautori italiani, in particolare quelli attivi nel corso degli anni Settanta, hanno creato, a suon di dischi, un repertorio sconfinato. Un vero e proprio patrimonio, alla base di un universo evocativo, fatto di immagini e sensazioni, in cui molte persone si riconoscono. Si riconoscono un po’ in tutti i sensi, perché può capitare di scoprire molti elementi in comune con persone appena conosciute, non appena emerge questa passione condivisa. E non si tratta solamente di riferimenti culturali simili, ma di un vero proprio immaginario condiviso, che si esplicita anche in citazioni fatte scivolare nei discorsi.

Un immaginario in cui “la luna è una palla e il cielo un biliardo”, in cui a tutti è piuttosto chiaro che “la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio” e in cui “ogni cosa ha il suo prezzo, ma nessuno saprà, quanto costa la mia libertà”. Popolato da gente che “si mette degli occhiali da sole, per avere più carisma e sintomatico mistero”, ma anche da personaggi più sfuggenti e poetici, come Alice che “guarda i gatti”, un pescatore con il suo “solco lungo il viso” o Maria, che “certamente non è un tema appassionante” ma sembra giusto parlarne, dopo aver chiesto gentilmente scusa. Un universo in cui “davanti alla fabbrica” ci sarà sempre una Vincenzina con il suo foulard, mentre “dietro al banco” troveremo inevitabilmente una ragazza intenta a mescolare “birra chiara e Seven Up”.

“Per la stessa ragione del viaggio… viaggiare”

Capita così che la conoscenza condivisa di questo repertorio si trasformi in una sorta di vissuto comune, fatto anche di viaggi: si scopre infatti di essere stati tutti a Genova, con quella faccia
e quell’espressione “un po’ così”; o a Rimini “tra i gelati e le bandiere” e nella “rossa e fetale” Bologna (dove notoriamente “non si perde neanche un bambino”). Così come tutti si è provato distintamente il caldo del “Paese dei tropici”
e il freddo di “un vento a trenta gradi sotto zero”, senza necessariamente essere davvero stati “dove il sole è più sole che qua” o sulla Prospettiva Nevskij… Allo stesso modo, si è condivisa una fuga su un cavallo galoppante verso una “non poi così lontana” Samarcanda, o un’interminabile traversata verso una Panama (“si dovrà pur vedere”) molto più difficile da raggiungere rispetto all’“Isola che non c’è” (seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino, non ti puoi sbagliare…).

Burattinai di parole

Vien da chiedersi da dove venga questa gentile forza pervasiva, quale sia il segreto che rende le canzoni dei cantautori tanto ancorate all’immaginario collettivo. Una risposta potrebbe risiedere nella cura particolare che è richiesta nello scrivere testi cantabili in italiano. Questi cantautori, a differenza dei loro omologhi francofoni e anglofoni (a cui dichiaratamente si sono ispirati) hanno sempre avuto una difficoltà in più da sormontare: la scarsa presenza di parole tronche (con l’accento che cade sull’ultima sillaba) per chiudere i loro versi.
La resa musicale di testi in cui l’accento non cade alla fine del verso rappresenta infatti una sfida non da poco. Prima dell’avvento dei cantautori era prassi diffusa quella di troncare le parole in maniera artefatta, il che conferiva ai testi un’aria da soffitta polverosa (si pensi ad esempio all’incredibile sequela di “ciel”, “suol”, “vuol”, “signor”, “amor” e perfino “ognor” di cui è farcita la versione italofona del salmo svizzero, che alla generazione dei nostri figli tocca disgraziatamente mandare a memoria nelle ore scolastiche…). Ma è – fortunatamente – musica del passato. La generazione di cantautori sorta alla fine degli anni Sessanta ha da subito voltato le spalle a questo modello, cercando con maggiore attenzione una musicalità efficace anche per versi piani, sdruccioli e bisdruccioli. Uno sforzo ulteriore e una maggiore cura che devono aver avuto un ruolo nell’incremento della qualità dei testi e di conseguenza nel loro “successo”.


All’inizio degli anni Ottanta cominciarono a essere organizzati anche in Ticino i grandi concerti nelle piazze. Qui “Libera Stampa” riporta le opinioni di un attempato, ma tutto sommato tollerante, frequentatore dei bar bellinzonesi, non particolarmente disturbato dall’arrivo di Roberto Vecchioni in Piazza Collegiata, nel 1982.

“Lingue allenate a battere il tamburo”

Nel repertorio dei cantautori troviamo degli incipit sfolgoranti, che basta evocare per far sì che l’intera canzone parta con tutta la strumentazione nella nostra mente… “E qualcosa rimane / fra le pagine chiare e le pagine scure”; “Farà piacere un bel mazzo di rose / e anche il rumore che fa il cellophane”; “Evaporato in una nuvola rossa / in una delle molte feritoie della notte”; “Probabilmente uscì / chiudendo dietro a sé / la porta verde”; “E di colpo venne il mese di febbraio / faceva freddo in quella casa” fino all’indecoroso “Ti hanno visto bere a una fontana / che non ero io”…
Già, perché i cantautori, fin dai loro esordi, hanno anche importato nei loro testi parole fino ad allora molto diffuse nel gergo comune e in canzonacce da osteria, ma ben poco presenti nei repertori ufficiali, allora sotto stretto controllo della censura. Affiorano così la rabbia, la protesta, ma anche giochi di parole più o meno scanzonati, proferiti da “voci potenti” , in finali liberatori come “Nun ce scassate ’o cazzo” , invettive velenosissime cucite sull’ardita ipotesi “io se fossi Dio” o sfoghi notturni corroborati da “angoscia, un po’ di vino e voglia di bestemmiare”.

“Restano i sogni senza
tempo, le impressioni
di un momento
le luci, nel buio, di case
intraviste da un treno”

Torniamo sempre lì, a quell’immaginario, fatto talvolta di “risate fatte con gli amici” e di “brindisi felici” ma in cui ciascuno è anche e molto spesso “solo con sé stesso”. E allora quel repertorio passa dal collettivo all’individuale, e ognuno
ci trova le citazioni che più aderiscono alla propria vita e alla propria condizione. “Però scendendo perdo i pezzi sulle scale / E chi ci passa su, non sa di farmi male” sono i versi di Vecchioni che ho sentito distintamente “miei” quando le cose non andavano bene. “Aspettami ogni sera, davanti a quel portone / E se verrai stasera, ti chiamerò per nome” sono invece quelli di De Gregori, che il nostro papà scelse per il suo ultimo saluto, vedendoci il ricongiungimento con la mamma, che lo aveva preceduto di una decina d’anni. Alla fine ci si rende conto che quell’immaginario, per chi ci si riconosce, è sempre presente, nelle grandi e nelle piccole situazioni che la vita ci propone, riaffiora, si manifesta, suggerisce riflessioni. Perfino quando si tratta di scegliere un quotidiano che ci racconti cosa succede nel mondo e nella nostra piccola realtà cantonticinese… se se ne trova uno che fa spesso capo a quell’immaginario, si legge quello. E a volte ci si riconosce.


Una poco lungimirante recensione di “Storia di un impiegato”, apparsa sul settimanale “Azione” alla sua uscita, nel 1973.

“ERANO TEMPI, ERANO BEI TEMPI”

Gli anni Settanta sono stati l’epoca d’oro del cantautorato italiano. In questo riquadro proviamo a metterci nei panni di chi era giovane allora (chi lo era, potrà ricordarlo) e ha potuto spendere bene i soldi che aveva a disposizione. Qui sotto proponiamo una selezione di dischi usciti nel solo quadriennio 1975-1978. Sono oltre trenta e per un motivo o per l’altro sono quasi tutti imprescindibili. Scorrete pure la lista e fatevi un’idea…
1975: Rimmel (De Gregori); Quelli che… (Jannacci); Volume 8 (De André); Ipertensione (Vecchioni); Io che non sono l’imperatore (Bennato).
1976: Via Paolo Fabbri 43 (Guccini); Bufalo Bill (De Gregori); Elisir (Vecchioni); La torre di Babele (Bennato); Mio fratello è figlio unico (Rino Gaetano); Eppure soffia (Bertoli); Alla fiera dell’Est (Branduardi); Ho visto anche degli zingari felici (Lolli); La batteria, il contrabbasso eccetera (Battisti); Sugo (Finardi).
1977: Burattino senza fili (Bennato); Come è profondo il mare (Dalla); Samarcanda (Vecchioni); Terra mia (Pino Daniele); Aida (Rino Gaetano); La pulce d’acqua (Branduardi); Io tu noi tutti (Battisti); Il centro del fiume (Bertoli).
1978: Rimini (De André); De Gregori (De Gregori); Lucio Dalla (Dalla); Calabuig, Stranamore e altri incidenti (Vecchioni); Amerigo (Guccini); Nuntereggae più (Rino Gaetano); Sotto il segno dei pesci (Venditti); Pigro (Ivan Graziani).


La Radiotelevisione della Svizzera italiana ebbe un rapporto privilegiato con i cantautori. Oltre ai concerti esclusivi nell’ambito della trasmissione “Musicalmente (distribuiti in Italia nell’apprezzata serie di cd e dvd “live@rtsi“) va senz’altro ricordato il notevole spettacolo “Me fuori di me” di Giorgio Gaber (1973), oltre a centinaia di altre apparizioni tra le quali si può citare l’incursione di un inedito trio Dalla Morandi-Guccini, che interpreta giustamente “Aemilia”. I primi due elegantissimi, il terzo con pulloverone sformato e scarpe grandi da uomo di montagna. L’annuncio qui presentato viene dall’allora *Teleradio 7” (1982), oggi “Ticino7”.

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