Disavventure latine. Iguaçu: cascate, solitudine e libertà
Viaggiando in solitaria si può sbagliare (e si fanno le scoperte migliori) e si può scegliere. Anzi, si deve. Non esiste più alta forma di libertà
Di Roberto Scarcella
Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, allegato a laRegione.
Ho sempre tifato contro il Brasile del “joga bonito”, che i miei amici adoravano, che tutti adorano, preferendo la classe più spigolosa di argentini e uruguaiani. Sentivo continuamente storie di turisti rapinati e malmenati a Rio. E c’era un chiassoso amico di famiglia con delle compilation insensate in cui musica cialtronesca come la Lambada si mischiava ai capolavori della bossanova, confondendomi e facendomi odiare tutto, senza distinzioni. Il portoghese dei brasiliani, poi, è quasi incomprensibile per via dei loro birignao. Insomma, io il Brasile ce l’avevo qui. Poi, per caso, dentro una libreria, ho ascoltato “Para Machucar meu coração” di João Gilberto. Me ne sono innamorato. Sono partito da lì e ho capito che dovevo vederlo con i miei occhi, il Brasile. Ci sono andato. Avevo torto. Ve lo racconto qui, nell’ultima tappa.
Prima di passarci un bel po’ di tempo e poi scriverne su queste pagine per un anno, in Brasile c’ero stato per meno di 24 ore, per di più da clandestino, cinque anni prima, visitando le cascate di Iguaçu con una toccata e fuga dall’Argentina. Poco tempo. Eppure dentro quelle 24 ore c’è stato un momento – di cui non so quantificare la durata, ma saranno stati dieci minuti – che ha cambiato la mia vita di viaggiatore. Direi di viaggiatore solitario, aggiungendo una parola. O anche solo la vita, andando per sottrazione.

© R. Scarcella
Sul vagabondare solitario
Quei pochi minuti hanno a che fare con una parte di me che aveva rotto traumaticamente con la vita precedente (“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde”, scriveva Alessandro Baricco nel suo primo romanzo) e andava a braccetto con due domande. Una se la faceva pure Bruce Chatwin. Ed era: “Che ci faccio qui?”. Talmente centrale da diventare il titolo del suo ultimo libro, in cui indagava il senso del viaggio. E non solo quello. L’altra mi è stata rivolta mille volte da amici, parenti, colleghi, sconosciuti: “Ma non ti annoi a viaggiare solo?”. La risposta a quest’ultima già la sapevo. Ed era, è: “No. Mai”. Ci ho ripensato, per non barare. Mi sono annoiato una volta, a Gjakova, in Kosovo, in un giorno tremendo di pioggia, fango, freddo e facce indagatorie di giovani maschi che parevano usciti da una cartolina degli anni Settanta e mi fissavano come a chiedermi: “Che ci fai, tu, qui?”. Un giorno solo, tra tanti viaggi, equivale a “mai”.
Il vagabondare in solitaria sorprende sempre per due cose: la mancata condivisione delle esperienze e – soprattutto – i pasti. La maggior parte della gente non se ne fa una ragione di uno che entra in un ristorante da solo, mangia, paga e se ne va. Come se fosse ai limiti dell’impossibile, tipo partire per Nettuno e tornare in giornata. Sulla condivisione delle esperienze, parliamone. Ho viaggiato e tuttora viaggio – a piccole dosi – in compagnia. Ed è (quasi) sempre bellissimo, divertente. Ma non obbligatorio. A sentire alcuni, sembra che, se sei solo, non puoi partire. O che baratteresti di corsa il tuo mese in Sudamerica con due settimane a Ibiza in compagnia. No, grazie. Forse, la dico un po’ grossa, ma in troppi hanno bisogno di qualcuno con cui partire perché in realtà temono l’unico compagno di viaggio di cui non possono disfarsi, e cioè loro stessi.
Tempo fa, a Milano, vidi la pubblicità di un tour operator specializzato in viaggi di gruppo. Il motto era: “Tu scegli la meta, agli amici pensiamo noi”. Lo trovai agghiacciante. Poi, certo, esistono destinazioni in cui molti (anche giustamente) non si sentono sicuri. Ed è sempre meglio andare che restare. Però quella frase, venduta come positiva, è ben più cupa e triste di un viaggio da soli. Se hai il problema di farti trovare da un’agenzia un amico con cui viaggiare, forse hai un problema più grosso, a monte, quando sei a casa.
Un luogo con un’anima sonnolenta
Ma torniamo a quel primo assaggio di Brasile. Partito da Puerto Iguazú, in Argentina, e diretto a Foz do Iguaçu, in Brasile, a bordo di un bus di frontalieri, scopro solo passato il confine che non avrei mai dovuto salirci. Quello per i turisti era un altro, che alla dogana si ferma per farti mettere il visto. Ma io nel frattempo sono già in Brasile. M’informo. Ho due modi per rientrare in Argentina, presentarmi alla dogana autodenunciandomi, rischiando, nell’ordine, di pagare una mazzetta, pagare una multa o finire in prigione. Oppure riprendere il bus dei frontalieri sperando che nessuno salga a controllare. Farò così, e mi andrà bene. Foz do Iguaçu è il classico posto di frontiera con un’anima sonnolenta e un paio di vie in cui si concentrano locali, hotel e divertimenti. Ceno e vado a letto presto, pensando che sia una buona idea presentarmi presto all’apertura del parco.

© R. Scarcella
Fortuna e felicità
Sono il quinto a fare il biglietto, dopo due coppie. Sul trenino che conduce alle cascate si unisce un folto gruppo di anziani. Quando scendiamo, mi rendo conto che per arrivare al punto panoramico serve una lunga e non agevole passeggiata. E così accelero, confidando nella lentezza altrui. Quando arrivo, ci siamo solo io, circondato dalle cascate, e cinque-sei arcobaleni formati dagli spruzzi d’acqua. Vivo una specie di epifania, sentendo allo stesso tempo una comunione esterna con la natura e una più profonda con me stesso. E penso: “Sono l’uomo più felice e fortunato del pianeta”. Ancora oggi, a ripensarci, mi si stampa un sorriso sul volto. Fossi stato in compagnia, chissà. Amo scattare foto in viaggio, ma lì decisi di farne a meno, di godermi il momento. Al sopraggiungere della prima coppia, scattai la foto ricordo di un momento di solitudine che se ne andava così pieno da non essere solitudine, ma – per assurdo – il suo contrario.

© R. Scarcella
La sorpresa nello sbaglio
Ce ne sono stati molti altri, poi, di attimi così, solitari e felici: dentro uno stadio argentino, in un villaggio sperduto dell’Amazzonia, in cima a un tempio messicano, in una piazza vietnamita o davanti a un castello giapponese. Viaggiare da soli ti permette di essere più attento a dove sei, a come sei, a vivere tutto più intensamente, ma con la leggerezza di non dover rendere conto a nessuno. Puoi essere completamente te stesso o – se vuoi – non esserlo affatto. Hai infinite possibilità in luoghi in cui nessuno sa chi sei e la mappa della tua esistenza è una pagina bianca. Puoi cambiare itinerario, perderti, fermarti dove non pensavi di farlo o viceversa, mangiare sei volte al giorno o mai, dormire a orari insensati o non dormire affatto. Parlare con tutti o con nessuno. Puoi sbagliare. E il più delle volte sarà la cosa migliore che tu possa fare. Puoi scegliere. Anzi, devi. Non esiste più alta forma di libertà.

© R. Scarcella
